Page 170 - La passione di Artemisia
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mantenere quel gesto. Era come se il mio braccio fosse paralizzato.

              Parlami, Lucrezia. Che vuoi che io faccia?
               La stanza, tutta la casa, erano silenziose. Attesi. Ricorda, pareva dire il
          suo occhio.

              Ricorda?
               Sgomberai il tavolo da lavoro e sistemai lo specchio da tavolo, poi presi
          in mano il pugnale di mia madre. Era un'arma terribile, dalla lama lunga
          quanto il mio avambraccio, d'acciaio scuro, con l'impugnatura a croce. Mi
          passai di piatto la lama sulla guancia. Il freddo del metallo mi gelò.

               Abbassai  la  camicia  e  presi  con  la  destra  il  seno  sinistro,  come  nella
          posa.  Appoggiai  il  gomito  sinistro  sul  tavolo  e  piegai  il  polso  destro,
          tenendo la mano a distanza del braccio, puntandomi contro il pugnale. Mi

          venne in mente il giorno della sibilla. Non ero arrivata a tanto, non avevo
          nemmeno tratto il pugnale da sotto il letto, ma ci avevo pensato.
               Con lentezza esasperata, piegai ulteriormente il polso e mossi la punta
          della  lama  verso  di  me.  Lentamente.  Fermandomi  di  tanto  in  tanto.  Più
          vicino. Ne guardai il taglio, lì dove il riflesso della luce scivolava man mano

          che lo muovevo. Mi doleva il polso. Con l'altra mano sentivo il battito del
          mio  cuore,  anche  se  mi  limitavo  solo  a  immaginare  il  colpo  che  mi
          penetrava le carni. Allo specchio vedevo il mio seno sollevarsi e abbassarsi

          lievemente.  Avrei  davvero  potuto  farlo?  Fermarlo  con  un  solo  colpo
          violento?
               L'avrebbe  potuto  fare  Lucrezia?  Era  il  mondo  dunque  tanto  avaro  di
          possibilità con lei? Posai la punta della lama sulla pelle.
              Un urlo lacerante.

              «No!» gridò Renata. Il pugnale mi sfuggì di mano. «Non fatelo!» Mi si
          gettò  addosso,  rovesciando  vassoio,  frutta,  acqua.  Un  orribile  fragore.  Mi
          afferrò le gambe.

              «Ma non lo stavo facendo», eruppi. «Stavo solo immaginando.
              Per il dipinto».
               Si  mise  a  piangere,  scossa  da  violenti  singhiozzi.  «Avreste  dovuto
          dirmelo! Che dovevo pensare?»
              «Mi  dispiace».  L'abbracciai,  le  carezzai  la  nuca,  sentii  contro  le  mie

          ginocchia il battito del suo cuore, la devozione dietro quel panico.
              «Ma ora lo so. Lo so! La mia Lucrezia non arriva a tanto.
               Non  è  un  gesto  che  sta  per  essere  compiuto.  Sta  riflettendo

          intensamente,  riconsiderando  quello  che  le  hanno  detto,  mettendo  in
          discussione  il  proprio  martirio,  ma  non  ne  ha  l'intenzione.  Dipingerò  il
          polso diritto, la lama sollevata verso l'alto».
              La baciai sul capo.





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