Page 16 - La passione di Artemisia
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2. Giuditta








               Quando entrai con le dita fasciate in un forno del nostro quartiere, la
          conversazione si interruppe di colpo con occhiate imbarazzate. I garzoni del
          fornaio  alzarono  le  mani  con  le  dita  spalancate,  in  un  gesto  di  scherno.
          Mentre tornavo a casa, la moglie del nostro sarto, che s'era affacciata alla
          finestra, sputò proprio mentre passavo.  Attraversando via del  Corso nella

          calura soffocante, mi fermai a guardare le rondini che svolazzavano tra i fili
          da bucato tesi tra le finestre. «Puttana!» sentii. Abbassai lo sguardo verso
          la strada, ma c'era solo una vecchia che vendeva della frutta.

              «Puttana!» sentii dire ancora da una voce roca. Raddrizzai la schiena e
          continuai a camminare, senza guardarmi attorno.
               Da una finestra in alto venne rovesciato un vaso da notte a non più di
          tre passi da me.
               Il processo non finiva più. Ogni volta che venivo convocata, mi toccava

          andare  e  sedere  ad  ascoltare  altre  accuse  e  bugie.  Il  fatto  di  non  poter
          lavorare  mi  faceva  impazzire:  quando  papà  mi  toglieva  le  bende  per
          cambiarle, i solchi infiammati alla base delle dita sanguinavano di nuovo.

               Dopo  che  le  ferite  si  erano  asciugate,  se  piegavo  le  dita,  anche
          lievemente, le croste di sangue rappreso si spaccavano.
              Non potevo tenere in mano né un pennello né un cucchiaio.
               Papà disse a  Tuzia di darmi da mangiare.  Fin da quando era morta la
          mamma,  Tuzia  avrebbe  voluto  l'amore  di  papà,  non  solo  il  suo  letto.  Era

          gelosa dell'amore che lui nutriva per me. Ecco perché aveva fatto entrare
          Agostino.
               Meglio morire di fame che farmi nutrire da lei e così non mangiavo. Un

          pomeriggio  papà  tornò  a  casa  urlando  che  Tuzia  mi  aveva  tradito  in
          tribunale.  Aveva  testimoniato  di  aver  visto  un  fiume  di  uomini  entrare
          nelle  mie  stanze,  e  così  la  cacciò  di  casa  e  chiese  a  una  vicina,  Porzia
          Stiattesi, di darmi da mangiare.
               Cercavo di tenere dritte le dita, in modo che guarissero prima per poter

          dipingere di nuovo. Ma erano ancora infette e infiammate e poi cominciò
          quel  prurito  che  mi  faceva  impazzire.  Non  riuscivo  a  far  altro  che
          camminare su e giù per casa, guardare dalle finestre e studiare i bozzetti

          che avevo fatto per la Giuditta, l'eroina che aveva salvato gli ebrei. Papà me
          ne aveva raccontato la storia quando l'aveva dipinta. Era entrata di nascosto
          nell'accampamento  nemico  fingendo  di  voler  sedurre  il  tiranno  assiro
          Oloferne.
               Invece lo aveva ubriacato: lo aveva stuzzicato, ritardando il momento di



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