Page 148 - La passione di Artemisia
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Palmira  si  lasciò  cadere  accanto  a  me  e  uno  degli  uomini  le  sorrise.

          «Loro non li hanno», disse.
              «Forse  non  sono  vecchi  come  me».  Quelli  risero  e  Palmira  passò  lo
          sguardo da loro a me, girando più volte la testa, per cercare di capire chi

          fosse più vecchio.
              «Guarda, stiamo passando accanto a una città. La vedi quella fortezza,
          sulla collina?»
              «Che cosa stupida costruire tutte le città sulle colline», disse Palmira.
              «Forse è il modo migliore per vedere chi arriva. Oppure per lasciare la

          pianura libera per le coltivazioni accanto ai fiumi».
              Palmira arricciò il naso in gesto di derisione.
              «Un  tempo  c'era  un  paese  chiamato  Pocopaglia,  costruito  su  un  colle

          talmente ripido che dovevano legare dei sacchetti sotto la coda delle galline
          per non far rotolare via le uova».
               Palmira si mise le mani sui fianchi, sapendo che la stavo prendendo in
          giro e mi lanciò uno sguardo di esasperazione.
              «E' comunque una cosa stupida».

              Mi strinsi nelle spalle. «Magari volevano solo godersi il panorama».
               Uno degli uomini sporse il grosso labbro inferiore,  come  a  voler  dire:
          «Può essere». «Lei è coraggiosa a fare un simile viaggio da sola». La voce

          era venata di condiscendenza.
              «Con la sua piccola curiosa», corresse l'altro uomo.
               Decisi  di  prenderlo  come  un  complimento,  più  che  come
          un'insinuazione. «Non per scelta, ma per esercitare la mia professione».
              «Professione?»

               La  domanda  era  carica  di  sospetto.  Genova  era  una  città  portuale,
          dunque c'era parecchio lavoro notturno per le donne attorno al porto. Non
          potevo lasciar loro pensare che intendessi quello.

              «Come pittrice. Sono una pittrice. Ho un nuovo committente a Genova.
          Immagino che sia una bellissima città, sempre con la brezza marina».
               Nel  corso  del  lungo  viaggio,  quegli  uomini,  senza  saperlo,  mi
          insegnarono  molte  cose:  a  deviare  una  conversazione,  a  dare  risposte
          evasive e misteriose sulla mia vita privata, a chiarire che avevo marito e poi

          a chiudere quella parte della conversazione lasciando intendere che fosse
          morto.
               Mi  addolorava  parlarne  in  quei  termini,  come  se,  così  facendo,  avessi

          annientato  ogni  possibilità  di  resuscitare  ciò  che  all'inizio  era  parso
          possibile. Già rimpiangevo di non aver insistito di più perché venisse con
          noi.
               Non  rivelai  a  quegli  uomini  il  mio  nome.  I  genovesi  erano  loquaci.
          "Genovese,  dunque  mercante",  si  dice,  e  loro  commerciavano  altrettanto



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