Page 142 - La passione di Artemisia
P. 142

«Nulla. Solo che suor Veronica ha detto di andare da sola».

              Lo ringraziai e gli offrii un sorso d'acqua.
              «Voglio venire anch'io». Palmira si gettò all'indietro contro il portone.
              «No. Tu andrai da Fina».

              Si mise a pestare i piedi. «Devo andare sempre da Fina».
              Mi rifece il verso, ma si lasciò trascinare di sopra.
               La chiesa di Santa Trinità si trovava non lontano dal Lungarno, dopo il
          quartiere maleodorante dei tintori. Cercai di non respirare quel tanfo acre.
          Ero  stata  una  volta  a  Santa  Trinità  per  vedere  l'enorme  crocefisso  e

          riferirne a suor Paola. Ora, aprendo il pesante portale, fui felice di respirare
          quel profumo muschiato di cera e incenso. Accanto alle candele votive c'era
          una monaca, la quale mi salutò e si presentò come suor Veronica.

              «Sono Artemisia Gentileschi».
              «Posso mostrarle la chiesa?» mi domandò.
              «Grazie».
               Percorremmo  la  navata  centrale.  A  destra  dell'altar  maggiore  mi  fece
          entrare in una cappella laterale. «Questi affreschi illustrano la vita di san

          Francesco. Sono del Ghirlandaio».
               Dall'ampia manica trasse fuori un sacchettino di stoffa. Abbassò la voce.
          «Suor  Graziella,  del  convento  della  Santa  Trinità  a  Roma,  vi  ha  mandato

          questo,  nascosto  in  un  pacco  di  erbe  seccate  che  ci  ha  mandato.  In  un
          biglietto mi ha raccomandato di darvelo, scusandosi se odora di origano».
              Sorrisi e lo avvicinai al naso. «Sì, origano e anche rosmarino».
              Lo feci scivolare in tasca.
              «E qui, in questo riquadro, potete vedere un miracolo di san Francesco,

          che  resuscita  un  fanciullo  morto,  caduto  da  una  finestra.  Proprio  qui,  in
          piazza Santa Trinità».
              «Oh, sì. Riconosco la facciata della chiesa».

              Compimmo un giro della chiesa e all'uscita la ringraziai e feci un'offerta.
          «Per i poveri».
              Mi ringraziò chinando la testa.
               Una  volta  a  casa,  aprii  il  sacchettino  e  ne  uscì  l'altro  orecchino  -  il
          pendente  di  perla  di  Graziella.  Su  un  pezzo  di  carta,  decorato  dai  tralci

          ondulati  di  Graziella,  erano  tracciate  queste  parole:  «Vendi  il  paio  di
          orecchini. Compra dei colori».
               Mi sentii percorsa da un'ondata di calore. Baciai gli orecchini e chiusi gli

          occhi, certa di non aver mai compreso il vero amore prima d'allora.
               Alcune settimane dopo, proprio quando pensavo di dovermi rivolgere di
          nuovo a Pietro per farmi dare del denaro - non sopportavo l'idea di vendere
          gli orecchini di Graziella - ricevetti una lettera da un mercante genovese,
          Cesare Gentile. La aprii con foga. Aveva visto, diceva, le mie opere a Palazzo



                                                           142
   137   138   139   140   141   142   143   144   145   146   147