Page 90 - Francesco tra i lupi
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XIV. La guerra dei cardinali
Papa Bergoglio ha bisogno di un’opposizione aperta. E ha bisogno di uno schieramento riformatore, che
faccia sentire la sua voce. Fa parte della strategia del pontefice argentino che i cambiamenti necessari non
siano decisi in solitudine e annunciati dalla finestra dello studio papale.
Egli è convinto che le scelte fondamentali del suo programma possano essere realizzate soltanto nel contesto
di una partecipazione corale della Chiesa. Il che significa in primo luogo coinvolgere l’episcopato mondiale
nelle decisioni cruciali e nello stesso tempo stimolare i fedeli, il popolo di Dio. Perché il gregge – sostiene – a
volte è più avanti del pastore. La svolta che ha delineato nell’arco di un anno, intervento dopo intervento, esige
che si ricrei nella Chiesa cattolica un clima conciliare.
Il Vaticano II è stato una grande scuola di libertà per il cattolicesimo: i vescovi hanno imparato a parlare
liberamente senza aspettare costantemente indicazioni dall’alto. Ed è stato anche una scuola di partecipazione:
i vescovi hanno imparato a confrontarsi, scontrarsi, redigere un testo, votare, emendare, fare accordi per
arrivare a documenti da approvare a larghissima maggioranza e fissare le direttive del cammino della Chiesa
nella società moderna. I risultati che venivano raggiunti nell’aula conciliare erano il frutto del consenso
cercato e guadagnato. Per la gerarchia ecclesiastica fu una stagione di crescita straordinaria.
Quando nel corso degli anni Novanta sono via via scomparsi i protagonisti del Vaticano II, la qualità del
dibattito pubblico in seno alla Chiesa cattolica si è impoverita. Al conclave del 2005 soltanto due cardinali
erano ancora diretti testimoni dell’evento conciliare: Joseph Ratzinger e l’americano William Wakefield
Baum, che avevano partecipato come esperti.
La stagione conciliare fu anche un momento di grande maturazione per i teologi, che l’hanno accompagnata
con le loro ricerche, e per il laicato cattolico, coinvolto nella discussione dei temi e nella realizzazione degli
orientamenti scaturiti dai testi conciliari.
Papa Bergoglio appartiene alla generazione di vescovi post-conciliari, per i quali il Vaticano II è un dato
acquisito e la discussione – cara a Ratzinger – se il concilio abbia avuto elementi maggiormente di rottura o di
continuità, risulta poco rilevante. Il giudizio del papa è lapidario: il Vaticano II ha prodotto «frutti enormi...
[e] la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi, che è stata propria del concilio, è assolutamente
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irreversibile» . Il giorno del compleanno di Benedetto XVI, celebrando messa a Santa Marta il 16 aprile
2013, Francesco ha sottolineato: «Il concilio è stato un’opera bella dello Spirito Santo... Giovanni XXIII è
stato obbediente allo Spirito Santo. Ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere
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testardi, voler addomesticare lo Spirito Santo... diventare stolti e lenti di cuore» .
Drammatica è la differenza con l’approccio regnante al tempo di Benedetto XVI. Nell’ottobre 2012, in
apertura dell’Anno della fede e del sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, la relazione del cardinale
Donald Wuerl lamentava gli effetti negativi del post-concilio, le «aberrazioni nella pratica liturgica» e
l’abbandono dei metodi tradizionali di trasmissione della fede. È stato, spiegava il porporato americano con
toni apocalittici, come se uno «tsunami di influenza secolare scardinasse tutto il paesaggio culturale, portando
via con sé indicatori sociali come il matrimonio, la famiglia, il concetto di bene comune e la distinzione fra
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bene e male» .
Ancora pochi giorni prima di lasciare il trono, Benedetto XVI, incontrando il clero romano, aveva parlato a
braccio dei danni provocati da un cosiddetto «concilio dei media» sovrappostosi al concilio reale, che si
svolgeva nella basilica vaticana. Il concilio dei giornalisti, disse Ratzinger, era stato raccontato in categorie
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fuori dalla fede e aveva provocato calamità e miserie, compresi i «seminari e conventi chiusi» . Un
intervento pessimista, fra i più infelici di papa Ratzinger, per l’incomprensione profonda del legame
inevitabile tra azione della Chiesa – come di qualsiasi altro soggetto sociale – e comunicazione di massa.