Page 86 - Francesco tra i lupi
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la curia resta.
      La curia è un mondo complesso, crogiolo di nazionalità, mosaico di persone di grande e piccola caratura, in
    gran parte animate da uno spiccato senso della missione e da un forte attaccamento all’istituzione. Persone
    spesso  –  non  sempre  –  motivate  dall’orgoglio  di  lavorare  in  un  centro  di  comando  a  dimensione
    internazionale. Complessa è la mentalità degli alti dignitari, non immediatamente classificabili per caselle.
    Possono  esserci  prelati  pronti  a  dare  la  comunione  ai  divorziati  risposati  e  chiusi  all’accesso  delle  donne  a
    cariche direttive. C’è chi non condanna i gay, ma è intransigente sul dovere del papa di attenersi al protocollo.
    Chi è aperto sul piano sociale e allo stesso tempo resiste alla prospettiva di democratizzazione dell’istituzione
    ecclesiastica. I campi dei tradizionalisti e dei riformatori hanno molte sfumature, ognuno ha le sue ragioni, ci
    sono aree di convergenza.
      «Siamo influenti perché siamo diversi», sostengono i conservatori illuminati, portando in campo le tante
    volte in cui alte autorità statali sono rimaste impressionate dall’antica solidità dell’istituzione romana. «Siamo
    autorevoli  perché  camminiamo  con  i  tempi»,  è  la  posizione  dei  riformatori  equilibrati,  che  esaltano  la
    flessibilità  della  Santa  Sede  nella  sua  storia  millenaria.  L’inattesa  rapidità  degli  ultimi  conclavi  rivela  una
    capacità di dialogo e di intesa tra punti di vista differenti all’interno del ceto cardinalizio: a maggior gloria della
    Chiesa di Roma.
      Il  Vaticano  non  è  monolitico.  Esiste  un  nucleo  di  monsignori  felici  del  nuovo  corso,  che  ringraziano  il
    conclave per la scelta fatta. D’altronde, già prima del conclave la curia era divisa tra diverse correnti. C’erano i
    sostenitori di Scola, i fautori del cardinale brasiliano Scherer, c’erano e ci sono i sostenitori del papa argentino.
      Il  Vaticano  non  è  mai  particolarmente  piaciuto  al  cardinale  Bergoglio.  A  suo  tempo,  da  arcivescovo  di
    Buenos  Aires,  Bergoglio  non  è  stato  in  buoni  rapporti  con  il  nunzio  Adriano  Bernardini,  molto  legato
    all’allora cardinale segretario di Stato Sodano. I vescovi conservatori argentini facevano ricorso a Roma per
    accusarlo di non essere abbastanza intransigente sui temi etici. Come presidente della conferenza episcopale
    argentina  Bergoglio  era  in  disaccordo  con  una  serie  di  nomine  vescovili  imposte  dal  Vaticano.  Roma
    ricambiava l’antipatia.
      Nel  2009  il  cardinale  Bergoglio  nominò  rettore  dell’Università  Cattolica  di  Buenos  Aires  il  biblista  e
    scrittore Victor Manuel Fernández, già presidente della società argentina di teologia. Fu costretto ad assistere a
    manovre dilatorie da parte del Vaticano, con il pretesto di indagini sull’ortodossia del teologo. Soltanto nel
    maggio  2011,  dopo  sgradevoli  anticamere  negli  uffici  vaticani,  Fernández  poté  giurare  come  rettore
    dell’università.
      Bergoglio  ha  sempre  provato  disagio  di  fronte  alle  delazioni  inviate  in  Vaticano  su  presunte  deviazioni
    dottrinali. Così come non ha mai condiviso l’insistenza ossessiva sui cosiddetti principi non negoziabili. A
    Roma vogliono «chiudere il mondo in un preservativo», è il detto che gli viene attribuito nel periodo in cui
    era cardinale.
      Piuttosto a Buenos Aires si manifestava sempre più allarmato per il deteriorarsi della situazione in campo
    ecclesiale.  Ad  un  prete  suo  amico  aveva  confessato:  «Se  mia  madre  e  tua  madre  resuscitassero  oggi,
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    implorerebbero il Signore di rimandarle sotto terra pur di non assistere al degrado di questa Chiesa» . Gianni
    Valente, l’amico giornalista romano presso cui Bergoglio si fermava spesso a cena, ricorda che veniva il meno
    possibile  in  Vaticano.  «Non  gli  piaceva  lo  spirito  di  corte  e  la  mancanza  di  attenzione  alle  esigenze  delle
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    Chiese  locali» .  Gli  procurava  fastidio  la  smania  di  quei  vescovi  che  passano  da  una  diocesi  all’altra,
    inseguendo sempre la più grande, quasi fossero tappe di una scalata al successo. Francesco non è mai stato a
    suo agio né con l’autoreferenzialità della curia né con le smanie di carrierismo al suo interno.
      Nei  meandri  della  curia  scattano  trappole  per  Francesco.  Nel  luglio  2013,  quando  il  papa  crea  la
    commissione per la riforma economica dell’amministrazione vaticana, gli osservatori notano con interesse
    che fra gli otto membri – tutti laici, tranne un sacerdote, mons. Vallejo Balda, segretario dell’Apsa – c’è una
    donna: Francesca Immacolata Chaouqui, italo-egiziana. Sembra un’ulteriore prova della volontà di Francesco
    di coinvolgere esponenti femminili nei suoi progetti di rinnovamento, come era accaduto poche settimane
    prima con la nomina della professoressa Mary Ann Glendon nella commissione d’indagine sullo Ior.
      Si tratta di una polpetta avvelenata. La trentunenne Chaouqui, proveniente dalla Ernst & Young, si proclama
    devota di san Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, e fervente ammiratrice di papa Francesco. È attiva nel campo
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