Page 48 - La coppia intrappolata
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34 2 Anatomia dell’aggancio nevrotico
2 re inosservato sia per la sobrietà sia per l’eleganza, pulito, forse curato per l’occasione, fasciava un
corpo dimagrito. Il viso si presentava senza un filo di trucco, ma i lineamenti così dolci e contrastan-
ti per la stessa durezza lasciavano comunque dare giustizia a un’oggettiva bellezza, un viso, a guar-
darlo bene, un po’ indurito da una lieve rigidità che trapelava. Ogni reazione motoria così come ogni
movimento avveniva in una modalità molto rallentata.
Il grado di cooperazione offerta o, come si usa dire in gergo psicoterapeutico, la predisposizione a
creare un’alleanza terapeutica era alquanto insufficiente. Razionalmente avrebbe voluto aiutarsi,
ma di fatto sembrava ancora troppo ingessata nel dover espiare la colpa di quanto le era accaduto.
“…Non so neppure io chi mi ha dato il coraggio di chiudere questa storia che mi ha distrutto l’esi-
stenza. Lo sto facendo perché razionalmente riconosco che è necessario. Dopo aver tentato il suici-
dio mi sono spaventata. Ho promesso che mi sarei lasciata aiutare…”.
Michela era nata e cresciuta in una città del centro nord. Non aveva conosciuto la madre perché era
morta nel darla alla luce, a causa di un problema ginecologico che si sarebbe potuto prevedere e
curare se solo i medici che la seguivano fossero stati più responsabili. Lei era cresciuta con i nonni
paterni e con suo padre che non cercò mai di rifarsi una vita, mentre non ricorda di aver mai cono-
sciuto i nonni materni, perché la madre era di origine olandese.
“ …Papà non ha mai pensato di portarmi a farmeli conoscere, forse non hanno mai espresso loro
il desiderio di vedermi, so che i genitori di mamma si erano opposti al matrimonio con papà, altro
non so. Parlavamo poco io e mio padre…”.
Dai nonni era amata, coccolata e anche viziata, ma nulla colmava il vuoto di una madre che non
c’era. Michela non aveva un amico immaginario, cosa che comunemente tutti i bambini hanno, lei
aveva la mamma immaginaria presso la quale si rifugiava spesso, tutte le volte che con il papà c’era
aria di burrasca.
Con il padre i rapporti erano molto difficili. Il padre era un noto architetto, molto conosciuto. Lo
descriveva come un uomo molto affascinante del quale tutte le sue amiche erano innamorate.
“…Papà aveva un grande problema, non ha mai chiesto aiuto a nessuno, ma evidentemente per-
dere una giovane moglie che adorava non è stato facile e allora affogava questo dolore bevendo.
Tutte le sere, dopo cena si chiudeva nel suo studio e beveva whisky. Io avevo bisogno di vederlo per-
ché durante tutta la giornata lui lavorava e… mi mancava troppo, ma tutte le volte immancabil-
mente mi maltrattava verbalmente, e a volte volavano pure dei ceffoni. Ma io lo capivo, era a causa
mia che mamma era morta e lui non poteva certo amarmi…”.
Durante l’infanzia, Michela giustificava i maltrattamenti di suo padre credendo che lei fosse una
bambina cattiva. Del resto non poteva nemmeno giustificare i maltrattamenti spiegandoli sulla base
del proprio cattivo comportamento, infatti era una bambina estremamente ben educata che cerca-
va disperatamente di piacere a suo padre.
Da adulta, verso i 30 anni, Michela si aspettava ancora che gli altri l’avrebbero rifiutata una volta che
avessero scoperto che lei era intrinsecamente cattiva. Prima di ogni incontro, soprattutto con i
ragazzi che le interessavano, Michela formulava tutta una serie di pensieri automatici negativi. Era
fortemente autocritica e presagiva prima ancora di darsi una possibilità che non sarebbe stata accet-