Page 97 - Sbirritudine
P. 97

anche  per  associazione  mafiosa,  per  delitti  o  per  furto.  Che  erano
              combinati  era  sicuro,  così  come  si  sapeva  perfettamente  a  quale

              famiglia  appartenessero.  Erano  mafiosi.  Anche  se  per  un  magistrato
              quello che ci eravamo messi in testa non sarebbe stato tanto regolare.
              Non  violavamo  il  codice,  questo  mai:  oltre  il  codice  c'è  la  terra  di
              nessuno, quella in cui è difficile distinguere i buoni dai cattivi. Quella

              in cui uno sbirro e un mafioso iniziano ad assomigliarsi. No. Noi contro
              i mafiosi applicavamo il codice alla lettera, e questo significava che li
              fermavano per ogni minchiata. Cinture di sicurezza, fanali rotti, rifiuti

              gettati in strada, schiamazzi notturni: ogni scusa era buona per fermarli
              e  fargli  sentire  che  gli  stavamo  addosso.  Facevamo  multe,  richiami,
              convocazioni in commissariato. Ora che eravamo in tanti ci potevamo
              permettere  di  non  mollarli  mai.  A  volte  qualcuno  veniva  fermato  la

              mattina da me e Renzo, il pomeriggio da Tacconi e Cripto e la sera da
              Casco e Incatramato. Li volevamo  fare sbiellàre.  L'obiettivo vero era
              trovare una crepa nell'organizzazione, all'apparenza così impermeabile,

              del  boss  Bellingeri:  volevamo  stanare  qualcuno  che  non  era  così  in
              sintonia  con  lui,  spingerlo  a  parlare,  farcelo  amico.  Praticamente
              vivevamo in commissariato. Rileggevamo i verbali degli interrogatori,

              verificavamo ogni più piccola notizia, telefonavamo allo SCO di Roma,
              avevamo un filo diretto con questore e magistrati.

                 La  temperatura  si  alzò  tanto  che  Prezia  andò  in  ebollizione.  Un
              giorno un nostro collega, Michele Lo Re, uno che lavorava in archivio,
              superò un incrocio sulla strada per il commissariato e venne speronato

              da  un  altro  mezzo.  Lo  Re  era  uno  di  quelli  precisi.  Divisa  sempre  a
              posto,  mai  un  richiamo,  disponibile  con  tutti  i  colleghi.  Non  era  un
              corrotto, anzi, era onestissimo, ma non era fatto per il fronte. Sarebbe

              stato un impiegato delle poste modello. Ma era un poliziotto, e noi a
              Prezia avevamo scatenato la guerra.

                 Alla  guida  dell'altra  auto  c'era  Salvo  Passalacqua.  Uomo  d'onore
              della  famiglia  di  Agatino  Tortorici,  legato  al  clan  Bellingeri.  Era
              enorme, pesava centotrenta chili: lo chiamavano “Betoniera” per quanto

              era grosso. Passalacqua lo aveva fatto apposta a finire contro l'auto del
              nostro collega. Lo avevamo fermato almeno sei volte nell'ultimo mese;
              gli avevamo contestato il possesso di una piccola dose di coca, di un
              coltellino non regolamentare e il bollo della macchina scaduto. Quando

              aveva incrociato Lo Re, con la sua divisa stirata e la sua faccia da bravo
              cristiano, Passalacqua non ci aveva visto più e gli era andato contro. Ma
   92   93   94   95   96   97   98   99   100   101   102