Page 95 - Sbirritudine
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Le stradine strette di Cefalù sembrano sul punto di stritolarmi a ogni
curva. Mi sento come un boccone amaro che viene digerito a fatica. I
miei passi mettono in allarme un paio di gatti che cenano con un
sacchetto di immondizia. Sento un rumore alla mia sinistra e decido di
seguirlo. Mi infilo in una cavità che si apre lungo il muro di una
palazzina di pietra e mi ritrovo in un antico lavatoio. L'acqua piove da
un buco nella roccia e scivola attraverso alcune piccole pozze. Da una
feritoia si vede il mare. L'acqua scorre e rimbomba. Chiudo gli occhi.
Da dentro una bara sotterrata forse è questo che si sente quando piove.
Rimbombo, acqua che scivola. E gocce che bussano. È questo che sente
mio padre? Forse la pioggia gli fa compagnia. Quando c'è il sole,
invece, e la gente è in giro o al mare, lui è solo. Perché il sole è vita per
noi vivi, ma per i morti è soltanto il silenzio di un cimitero deserto.
Il silenzio tra me, Renzo e i nuovi arrivati, chiusi quel giorno
nell'ufficio investigativo del commissariato di Prezia, era denso e
doloroso. Eravamo come dentro una fotografia. Muti e immobili. Un
gruppo di uomini che stavano per stringere un patto. Mi chiedevo chi
fra loro sarebbe morto per primo. Io sapevo che prima o poi sarebbe
toccato a me, ma loro l'avevano messo in conto?
Tacconi mi guardava e si vedeva che voleva parlare. Era il più
dinamico. Era uno che voleva fare. Ma io stavo zitto. Renzo fece cenno
a lui e agli altri quattro di sedersi dove capitava. Il nostro ufficio era
piccolo, tre scrivanie e cinque sedie, un telefono e un fax. Dovevo dire
qualcosa. Quei ragazzi se lo aspettavano. Ma quel giorno non dissi
niente. Andai a casa. Nessuno di noi ne riparlò mai. Fu come se ci
fossimo conosciuti solo a partire dall'indomani.
Bosco peggiorava di giorno in giorno: era ridotto all'ombra di se
stesso. Notai che si impasticcava di qualcosa. La carriera lenta ma
inarrestabile che si era prefissato era finita da quando aveva messo