Page 72 - Sbirritudine
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di finire in fondo alla vallata. Dovevamo tornare indietro. Renzo fece
manovra e per poco non precipitammo giù: la pioggia pesante si stava
mangiando i bordi della strada. Proseguimmo per una mezz'ora in quel
buio scrosciante.
Poi, da una curva, spuntò davanti a noi una Punto bianca. Minchia,
imprecammo tutti. La strada era stretta. In due auto ci si passava a filo.
E diluviava. La Punto ci lampeggiò.
«Che minchia vuole questo!» urlò Renzo. Avanzammo, e l'altra auto
fece lo stesso. I cofani si sfiorarono. Ci affiancammo. Vidi il guidatore
attraverso i finestrini imbrattati di gocce. Viaggiava con altri due. Tre
sagome invisibili. Le auto erano vicinissime. Poi un fulmine alluciò la
vallata e riconobbi il guidatore. Era Benedetto Leto. Non lo vedevo da
anni. Anche lui era di Bonifacio come me. Da bambini giocavamo
insieme. Poi mio padre un giorno mi disse che non dovevo parlarci più.
Quando gli chiesi perché, lui non mi rispose. Qualche anno dopo seppi
il motivo: era figlio di un mafioso, un pezzo grosso. E pure Benni, così
lo chiamavano tutti, si era dato da fare ed era diventato un pezzo
grosso. Un killer. Uno di quelli che non sbagliano mai. Ne aveva uccisi
otto. Uno, si sospettava, neanche una settimana prima. Era ricercato da
un paio d'anni, la guerra di mafia lo vedeva in prima linea. E ora era lì.
A pochi millimetri di vetro da me. E mi guardava. Anzi, mi fissava.
Benni sapeva benissimo che ero un poliziotto.
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Benni Leto, il killer. Né io né lui abbassavamo lo sguardo. Ci
fissavamo come due torri. A Renzo scappò la frizione. Sobbalzammo.
Gli altri due in macchina con Leto si mossero impercettibilmente.
Erano ombre, sotto quel temporale, ma sapevo che le loro mani stavano
cercando i ferri. Le loro dita scivolavano intorno ai grilletti. Poi le
nostre auto avanzarono piano, una da una parte e una dall'altra.
Mancava poco e si sarebbero superate a vicenda. Davanti a me, Paco e
Renzo, c'era la strada per tornare a casa.