Page 37 - Sbirritudine
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                 Cammino lungo una strada. Un cane randagio tutto sminchiato mi si

              avvicina.  Mi  annusa.  Cerca  qualche  carezza.  Mi  chino,  scodinzola
              felice.  Poi  un  rumore,  persiane  che  si  aprono  e  si  chiudono.  Il
              bastardino fugge. Ha paura degli uomini, e fa bene. Anch'io li temo.

                 Ritorno alla macchina. Guido verso il commissariato. Incredibile, è
              ancora più cadente di quando ci lavoravo. Un cubo di mattoni, scrostato

              e  giallo.  Non  si  vedono  luci  accese. Anzi,  no,  eccone  una  debole  al
              primo  piano.  Sembra  tremare  al  buio.  In  questo  momento  è  l'unica
              traccia della presenza dello Stato a Prezia.

                 Quante volte arrivavo qui guidando a manetta e scendevo al volo per
              correre dentro e ricominciare a lavorare dopo neanche tre ore di sonno a

              casa.  Adesso  non  ce  la  faccio.  Ho  le  mani  incollate  al  volante  e  la
              schiena aggrappata al sedile.

                 Dall'esterno  potrebbe  sembrare  uguale  a  un  qualunque  asilo
              Pirandello o una scuola elementare Sciascia o un ufficio dell'anagrafe
              circoscrizione  XII:  due  piani,  doppio  balcone  sul  davanti,  inferriata

              tutto intorno, un parallelepipedo anonimo e giallastro venuto fuori dal
              disegno di un geometra più scazzato del solito.

                 Ma dell'interno ricordo ogni millimetro: un tempo è stata casa mia. I
              ghirigori  della  muffa  sui  muri  e  sui  soffitti  formatisi  dopo  che  erano
              esplose le tubature per i lavori di ampliamento della sala riunioni: ci fu

              l'acqua alta per una settimana e fummo costretti a trasferire gli archivi
              nel panificio Giammona per fare asciugare i faldoni vicino ai forni. E il
              pavimento di linoleum blu dell'ingresso con al centro esatto, tra la porta
              e il bancone del piantone, l'incisivo dell'agente Culotta che inciampò e

              cadde  a  terra  correndo  come  un  pazzo  per  raggiungere  l'ospedale  e
              assistere alla nascita del suo primo figlio: dente che nessuno riuscì mai
              a  estrarre  e  che  lasciammo  lì,  come  una  minuscola  lapide.  O  le

              scrivanie tutte diverse, alcune recuperate all'asta del barone Chiovaro,
              che si era giocato ai cavalli pure le foto di famiglia: certe erano così
              imponenti da occupare un'intera stanza e altre così antiche da portare

              ancora  l'effigie  sabauda.  E  le  mattonelle  a  fiori  sbeccate  nei  bagni:
              scelte  dal  piastrellista  Fasòla,  un  ex  detenuto  convinto  di  avere  una
              vena  artistica  e  incapace  di  farne  appattàre  almeno  due  senza
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