Page 271 - Sbirritudine
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Fingeva, e male, ma chi non la conosceva non l'avrebbe potuto notare.
              Con  Spada  e  Cripto  parlavamo  il  meno  possibile. Avevamo  sospeso

              ogni  controllo  sui  fascicoli  relativi  a  Bellingeri  e  alla  sua  cosca,
              facevamo  vita  da  ufficio  e  ogni  tanto  qualche  ronda  o  sporadici
              controlli sulle piazze di spaccio a Prezia e dintorni. Anche noi stavamo
              in agguato, nel silenzio che ci circondava. Anche noi eravamo pronti:

              aspettavamo  solo  che  passassero  i  giorni  che  ci  separavano  da
              Piscitello. Sette. Solo sette giorni. Avevamo l'auto del cugino di Cripto,
              ma ce ne servivano altre due pulite. Le avremmo affittate a Palermo nei

              giorni successivi e le avremmo posteggiate a Camico. Passavo la notte
              a montare e smontare nella mia testa il nostro piano alla ricerca di tutti i
              punti deboli.

                 L'indomani, alle sei del mattino, un rumore di anfibi che sembrava un
              esercito  in  marcia  mi  svegliò  di  soprassalto.  Mi  vestii  e  uscii

              dall'archivio.  I  colleghi  erano  in  assetto  di  guerra,  e  Mistretta  stava
              finendo di dare gli ordini. In pochi istanti corsero fuori, salirono sulle
              auto  di  pattuglia  e  partirono  scodando  a  sirene  spiegate.  Mandai  un
              SMS a Spada e a Cripto: “Venite subito”.

                 Spada arrivò immediatamente. Insieme assistemmo, un'ora dopo, al

              ritorno delle pattuglie. Frenate e sgommate, come se fossimo al circo.
              In mezzo al fumo degli pneumatici vidi un uomo che veniva aiutato a
              uscire da una volante; un poliziotto gli passò il bastone. Mentre il fumo
              si posava a terra, lo riconobbi: era Michele Sciacca. Lo avevano preso.

              Dalla stessa macchina scese la Patania, e dopo di lei Mistretta. Il boss,
              sorretto dai nostri colleghi, entrò in commissariato passandomi accanto.
              Sollevò appena lo sguardo. Aveva occhi liquidi, come se non vedesse

              bene,  e  un  sorriso  ebete  sulla  faccia.  Poteva  sembrare  un  vecchio
              rincoglionito: era quella la maschera che aveva scelto. Lui non voleva
              incutere  paura,  anzi.  “Non  avete  preso  il  boss  latitante  da  trent'anni”

              sembrava dire con quell'espressione. Quello che ha ammazzato almeno
              sessanta  persone,  mandante  di  almeno  altri  cinquanta  omicidi.  Non
              avete preso un corleonese, no: avete preso un vecchietto. Un anziano

              con la faccia buona. Come avete potuto dare la caccia per trent'anni a
              un  uomo  così  inoffensivo?  Era  una  strategia  molto  furba,  la  miglior
              mossa possibile in quella situazione.

                 Arrivarono Rizzitelli e Patalèo. C'erano anche loro. E certo: l'allegra
              comitiva  che  si  era  mangiata  il  gelato  alla  cascina  del  boss  ora

              contraccambiava la visita ospitando il padrino in casa propria. Con tutti
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