Page 270 - Sbirritudine
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le chiedevo di scappare via come una ladra, ancora più lontano.

                 «Voglio che vieni qui» mi disse, «ho paura. Che hai fatto?»
                 «Niente,  non  è  successo  niente.  Dobbiamo  solo  essere  prudenti.

              Domani ti chiamerò sul tuo solito numero e ti dirò che chiederò le ferie
              perché ho deciso di venire da te.»

                 «Siamo controllati?»

                 «Sì.»

                 «Sono loro, i mafiosi?»
                 «No. Non lo sappiamo.»

                 «Ma  che  vuol  dire?  Se  non  sono  mafiosi  sono  tuoi  colleghi…  È
              così?»

                 «Ascolta, non posso dirti di più. Fidati di me.»

                 Aveva  capito.  Non  potevo  farci  niente.  Salutai  Spada  e  tornai  a
              Bonifacio.

                 Mi fermai a casa, ammucchiai dei vestiti in una borsa e ripresi la mia
              auto.  Poi  tornai  a  dormire  in  archivio,  come  sempre.  Un  paio  di

              colleghi, al solito, passarono di lì a fare un po' di casino e tornarono di
              sopra.  Se  avevano  seguito  i  miei  spostamenti  con  il  GPS,  adesso
              vedendomi  con  la  borsa  avrebbero  pensato  che  avevo  finito  i  vestiti

              puliti e che ero andato a fare rifornimento: ero ancora un passo avanti a
              loro  e  avevo  anche  guadagnato  una  linea  sicura  con  mia  moglie.
              D'istinto  pensai  a  Bellingeri:  ero  diventato  come  lui.  Cellulari  nuovi,
              tanti numeri, incontri segreti, auto scambiate. Stavo usando tutti i suoi

              metodi.  Io,  un  poliziotto,  vivevo  come  un  mafioso.  Braccato.
              Controllato.  Spiato.  Solo  che  io  non  avevo  fatto  niente.  Non  avevo
              ammazzato  nessuno,  non  ero  un  criminale.  Facevo  solo  quello  che

              credevo fosse il mio dovere.
                 I  due  giorni  successivi  trascorsero  senza  omicidi.  C'era  una  strana

              quiete, a Prezia, lo sentivo. Era sparito il solito rumore di sottofondo,
              quel fruscio fatto di mare, voci lontane, vento, passi, cinguettii e guaiti.
              Il  silenzio  che  c'era  adesso  dava  le  vertigini,  faceva  paura.  Era  un

              silenzio immobile, come quello che si addensa intorno a un predatore in
              attesa. Un silenzio che portava la morte.

                 Il pomeriggio chiamai mia moglie e recitai la mia parte. Le dissi che
              stavo per chiedere le ferie al mio dirigente e che, contemporaneamente,
              avrei  chiesto  il  trasferimento  al  questore.  Lei  fece  quella  contenta.
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