Page 265 - Sbirritudine
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Li vedevo andare verso la cascina. Trovai un punto in cui il terreno si
              avvallava. C'erano dei canneti e un fiume.

                 Riuscii a girare l'auto e a piazzarla con il muso verso la strada da cui
              ero venuto, pronta per la fuga. Poi cercai di nasconderla il più possibile

              nel  canneto.  Attraversare  i  campi  era  impossibile,  sarei  stato  troppo
              scoperto. Però il fiume faceva una lunga curva e piegava in direzione
              della cascina, protetto dal canneto che lo costeggiava. Scesi sul greto,

              con l'acqua che mi arrivava alle ginocchia. Camminavo piano per non
              cadere,  e  impiegai  quasi  un  quarto  d'ora  per  arrivare  nei  pressi  della
              cascina.  Salii  sulla  riva  e  scivolai  tra  le  canne,  cercando  di  non  fare
              troppo rumore. Raggiunsi il limite del canneto. Spostai del fogliame. E

              li vidi.

                 Erano  seduti  sul  retro  della  cascina,  intorno  a  un  tavolo.  Sotto  un
              albero  di  gelso.  La  Patania  e  Mistretta  ridevano;  con  loro  c'era
              l'assessore  Calafiore.  Lui  era  serio:  presto  sarebbe  diventato
              sottosegretario. C'erano anche Rizzitelli e Patalèo, i due carabinieri, le

              leggende  dell'antimafia.  E  poi  arrivò  lui.  Michele  Sciacca,  boss
              corleonese  latitante  da  trent'anni.  Era  vecchio,  piccolo,  aveva  perso  i
              capelli. Usava un bastone. Zoppicando, raggiunse il tavolo e si sedette

              con gli altri. Erano tutti insieme: politica, Polizia, Carabinieri,  mafia.
              Mancava un prete a benedire e sarebbe stata la cartolina perfetta della
              Sicilia.

                 Ero  impietrito.  Non  respiravo.  Li  vedevo  lì,  ma  non  riuscivo  a
              crederci. Avevo i pantaloni e le scarpe bagnati, ero sporco di fango, i

              palmi  delle  mani,  tagliati  dalle  foglie  sottili  delle  canne,  mi
              sanguinavano.  Loro,  invece,  erano  seduti  sotto  un  gelso.  La  Patania
              stava mangiando una coppetta di gelato. Rizzitelli disse qualcosa ad alta
              voce, Calafiore fece un cenno a Sciacca, poi si misero a parlare. Non

              riuscivo a sentire niente, perché il vento scivolava sui campi e poi si
              infilava fischiando tra le canne.

                 A  un  tratto,  vidi  degli  uomini  armati  di  fucile  che  pattugliavano  il
              perimetro della cascina guardandosi intorno. Erano le guardie del boss.
              Uno dei due cominciò a camminare nella mia direzione. Indietreggiai a

              quattro zampe. Ridiscesi nel fiume, ma stavolta non riuscivo a reggermi
              in piedi: mi accorsi di tremare. Sentii dei rumori alle mie spalle e mi
              costrinsi  ad  accelerare  il  passo.  Raggiunsi  la  mia  macchina,  chiusi

              delicatamente lo sportello e aspettai. Quando, in lontananza, sentii un
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