Page 259 - Sbirritudine
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formalizzata.

                 Minchia, pensai, più schifo fanno e più fanno carriera. La Grua aveva
              ragione:  stavo  troppo  con  la  testa  calata  a  cercare  tracce  sul  terreno,
              mentre intorno succedeva di tutto. Mi perdevo la visione d'insieme. La

              minchia di visione d'insieme, quella che spiegava ogni cosa.
                 Quella notte ci furono altri omicidi, ormai era un bollettino di guerra.

              Tre uomini uccisi, due fratelli e un cognato originari di Camico. Nel
              frattempo,  l'incazzatura  per  la  storia  di  Calafiore  mi  faceva  cuocere
              ogni minuto di più. Quando Cripto entrò in commissariato io ero alla

              macchinetta del caffè. Ero sicuro che non l'avrei rivisto mai più, dopo
              che  si  era  messo  in  malattia,  e  invece  era  tornato.  Era  pallido  e
              stropicciato, sembrava che non avesse dormito.

                 «Ti devo parlare» biascicò. Il momento dell'addio, pensai. Ma almeno
              lui aveva avuto le palle. Gli dissi che anch'io gli dovevo parlare. Me ne

              andavo anch'io, gli volevo dire. Ce ne saremmo andati insieme.
                 Ma  lui  mi  fece  segno  che  non  era  quello  il  posto  per  parlarsi:

              «Andiamo fuori». Lo seguii nel parcheggio del commissariato.
                 «Che  storia  è?»  gli  chiesi.  Lui  tirò  dritto  fuori  dal  parcheggio.

              Iniziammo  a  girare  tra  i  vicoli  intorno,  in  silenzio,  finché  non
              raggiungemmo il lungomare.

                 Il vento fischiava forte, dovevamo parlare a voce alta. «Qui va bene»
              disse Cripto.

                 «Che succede?»

                 «Ho portato la macchina dal meccanico per una controllata generale»
              incominciò lui.

                 «Bravo, la dovevi portare allo sfascio, quanti anni ha?»

                 Mi prese per un braccio. «C'era un segnalatore GPS nascosto dentro.»
              Lo fissai. «E delle cimici» aggiunse.

                 Minchia. Lo stavano spiando. «Le hai fatte togliere?»

                 «No, volevo prima parlarne con te. E capire se anche tu ce le avevi.»
                 Tornammo  in  commissariato.  Presi  la  mia  auto  e  guidai  fino  a

              Palermo.  Andai  in  periferia,  vicino  a  una  discarica  a  cielo  aperto
              circondata da palazzoni. Dei ragazzini seminudi e sporchi giocavano fra
              l'immondizia  picchiandosi  e  tirandosela  addosso,  mentre  altri

              rovistavano tra i sacchetti come cani randagi.
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