Page 244 - Sbirritudine
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Stato: il loro. La prima tassa da pagare era quella dovuta a loro, il dieci
              per  cento  sugli  incassi  ogni  mese.  Sul  lordo  degli  incassi.  Lo

              rifornivano  ai  loro  prezzi,  alti,  e  poi  lo  taglieggiavano  senza  pietà.
              Canepa aveva iniziato a pagare, era andato in giro a chiedere ad altri
              commercianti  ma  gli  avevano  assicurato  che  non  pagavano  nessuno.
              Negavano tutti: quindi, capì Canepa, pagavano tutti.

                 Nel giro di un anno era già con l'acqua alla gola, e i suoi due amici

              erano  tornati  a  fargli  visita.  Nessuno  sconto,  quello  mai.  Ma  una
              dilazione  sì;  a  patto,  però,  che  lui  assumesse  tre  persone  indicate  da
              loro, stipendiate e messe in regola. Canepa si piegò di nuovo, ma scoprì
              che i tre neoassunti non si  presentavano nemmeno al lavoro. Quindi,

              oltre al dieci per cento da versare sugli incassi si ritrovò a pagare tre
              stipendi  in  più  ogni  mese.  In  sei  mesi  le  banche  smisero  di  fargli
              credito, e i due amici tornarono da lui con una proposta: rilevare metà

              dell'attività. Diventando soci le cose sarebbero andate meglio, visto che
              lui,  Canepa,  aveva  dimostrato  ampiamente  di  non  essere  un  buon
              amministratore.

                 Dopo  quell'abbraccio  mortale,  aveva  trovato  la  forza  per  ribellarsi.
              Mesi  di  umiliazioni,  mesi  di  soprusi.  Una  sera  conobbi  sua  moglie:

              aveva lo stesso sguardo disperato della mia quando uscivo la mattina
              all'alba  e  rientravo  la  sera  tardissimo.  Le  sue  figlie,  invece,  erano
              inconsapevoli. Lui le aveva protette da quello schifo.

                 Finalmente  arrivò  la  sera  in  cui  i  due  cari  amici  di  Canepa  si
              sarebbero presentati da lui per concludere l'affare ed entrare in società.

              Era un venerdì. Le telecamere nascoste piazzate nell'ufficio di Canepa
              riprendevano la stanza. Lui era seduto dietro la scrivania, canticchiava
              una  canzone.  I  microfoni  ci  rimandavano  la  sua  voce  perfettamente
              chiara. Lo chiamai al cellulare e lo vidi rispondere sul monitor piazzato

              nel commissariato.

                 «Come ti senti?» gli chiesi.
                 «Sto bene» esclamò, e poi aggiunse: «Sto facendo la cosa giusta?».

                 «Solo tu puoi saperlo. Ma posso dirti che ti ammiro.»

                 «Dopo stasera, quanto dovremo aspettare prima di andare via?»

                 «Una  settimana.  Tu  e  la  tua  famiglia  verrete  prelevati  il  lunedì,  il
              giorno di chiusura del supermercato, e portati in una località protetta.»

                 «Quando potremo tornare?»
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