Page 233 - Sbirritudine
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chiese quante foto come quelle avessimo noi. Non eravamo mai partiti,
noi. Noi due insieme non eravamo mai andati oltre Messina: eravamo
prigionieri della Sicilia, intrappolati su un'isola maledetta. Aveva detto
così: «La Sicilia è un'isola maledetta». Provai a dirle che ero vicino a
concludere un lavoro grosso, ma lei fu categorica e mi fece notare
decisa che ripetevo sempre la stessa cosa. Anche Cripto la pensava così.
Forse avevano ragione loro, non avrei mai smesso di continuare a
cacciare. Mi riusciva difficile immaginarmi a Roma. Che avrei fatto? A
Roma c'era il potere assoluto, mafia e politica andavano a braccetto,
come avrei potuto starmene tranquillo? Forse per me sarebbe stato
peggio che qui in Sicilia. Anna mi diede un mese per pensare e per
chiudere tutti i miei casi ancora aperti. Poi sarebbe tornata a Bonifacio a
prendersi delle cose e sarebbe ripartita, con me o senza di me. Ora non
facevo che chiedermi quale fosse la cosa giusta da fare.
Ero nell'ufficio dell'investigativa di Prezia quando mi ritrovai a
sfogliare alcuni fascicoli sugli uomini d'onore vicini a Piscitello, lo
sgherro che aveva portato la collana alla Tranchina. Guardavo le loro
foto segnaletiche. Alcune le conoscevo a memoria: sapevo dove
iniziavano le imperfezioni del loro viso, sapevo dove avevano i nei, i
porri, le cicatrici e le verruche. Chi si era fatto un tatuaggio. Come
avevano iniziato a perdere i capelli. I chili che avevano messo su o che
avevano smaltito in relazione alla loro ascesa o caduta all'interno di
Cosa Nostra. Molti li incontravo nei bar di Prezia o di Bonifacio, di
Camico, di Cardillo. Li rivedevo dopo il carcere. Li guardavo sorridere
con il loro amici, con le loro famiglie, e spiavo le venuzze del loro viso.
Osservavo le rughe che gli erano spuntate e pensavo: bastardo, stai
invecchiando. Alla fine morirai, stronzo. Poi mi dicevo che stando
dietro a loro, minchia, stavo invecchiando pure io.
La mia vita era diventata questo: controlli, spiate, intercettazioni,
pedinamenti, foto segnaletiche. Quando Casco mi confidò che aveva
chiesto il trasferimento, gli dissi che stava facendo la cosa giusta:
doveva pensare a vivere la sua vita. Mi disse che si era preparato un
discorso di giustificazione, perché mi doveva molto, ma gli risposi che
non servivano discorsi: lui era un ottimo poliziotto, uno dei migliori che
avessi mai conosciuto. Ed era arrivato il momento di andare via, e
presto sarebbe arrivato anche per me. Lui mi guardò e sorrise. «Per te
non arriverà mai» disse. «Tu sai fare tante cose, ma non sai smettere.»
«Se mi ci metto vedrai che ci riesco» risposi.