Page 21 - Sbirritudine
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Dopo  un  po'  Dagnino  e  gli  altri  tornarono  carichi  di  roba  e
              imbottirono la volante di tonno e ragù in scatola, di detersivi per i piatti

              e  pacchi  di  spaghetti.  Salimmo  a  bordo  e  ripartimmo.  Il  silenzio  era
              interrotto solo dalle ruote dell'auto che sprofondavano nelle buche della
              strada dissestata.

                 Dagnino riprese il suo racconto sul cognato, poi mi sorrise e mi disse
              che Tanuzzu era un loro grande amico che gli dava una mano. Che lo

              stipendio  da  sbirro  è  poca  cosa  e  che  le  spese  sono  sempre  troppe.
              Finora  avevano  diviso  in  tre,  ma  adesso,  visto  che  la  squadra  era
              composta  da  quattro  persone,  avrebbero  spartito  volentieri  anche  con
              me.

                 Io continuavo a guardare fuori dal finestrino mentre gli dicevo che mi

              ero arruolato per arrestare i delinquenti, non per essere uno di loro, e
              che  non  volevo  sapere  niente  di  quella  storia  e  che  se  saltava  fuori
              qualcosa li denunciavo all'istante.

                 Dagnino  scoppiò a  ridere.  «Non  lo  capisci»  mi  disse  «che  era  uno
              scherzo? Noi questa roba la paghiamo. A fine mese, ma la paghiamo.

              Tanuzzo ci fa una dilazione, capito?»
                 Gli altri due spiarono la mia reazione dallo specchietto retrovisore.

                 «Dagnino,  fammi  togliere  da  questa  pattuglia  o  vi  rovino.  Non  vi
              voglio fare la morale, ma non rubo. Preferisco morire di fame.»

                 Dagnino sbiancò e s'ammutolì. Per la prima volta da giorni mi godetti
              un giro in pattuglia senza uno di quei suoi racconti del cazzo.

                 Venni trasferito due giorni dopo. E dopo dieci, Dagnino e gli altri due

              furono arrestati.
                 Finii a piantonare detenuti nelle camere speciali. Era il periodo del

              maxiprocesso a Palermo. Cosa Nostra alla sbarra. In galera c'erano tanti
              pezzi  da  novanta.  I  più  feroci  e  determinati.  Capi  e  pupari.  Nel
              sorvegliarli  mi feci una cultura.  Era come stare allo zoo. A guardarli

              non  gli  avresti  dato  due  lire.  Bassi  e  tarchiati,  lunghi  e  magri,  facce
              ossute, scavate, che sbrodolavano grasso, allo stesso tempo ordinari e
              dozzinali. Ma i loro occhi erano pozzi in cui si vedeva la violenza e la
              determinazione che ribolliva dentro di loro.





                 Bonifacio dorme. Sono io che ho smesso di farlo. Il resto della gente
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