Page 196 - Sbirritudine
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L'operazione non scattò la mattina presto. No. Volevo beccarli tutti
              dopo pranzo: era il momento della giornata in cui erano più pieni, più

              grassi,  più  sicuri.  Quel  giorno  decisi  di  andare  dal  barbiere  per  una
              spuntatina ai capelli. Mi presentai da quello nel corso principale: volevo
              che mi vedessero tutti. Mi feci fare pure la barba, cosa che non facevo
              mai. Dissi che andavo a una cerimonia importante.

                 «Matrimonio?» mi chiese il barbiere.

                 «No, di più» risposi. I vecchi che bivaccavano lì dentro, con giornali
              sportivi  tra  le  mani  e  le  facce  da  spioni,  si  scambiavano  sguardi

              indecisi. Li vedevo allo specchio. Di che parla lo sbirro?, c'era scritto
              sui loro volti. Dopo passai dal bar della piazza e comprai una guantiera
              di dolci. Un vassoio talmente grande che si piegava sotto il carico delle

              paste. In piazza mi guardarono tutti: capelli tagliati, barba fatta, dolci
              per un esercito. Ma dove minchia deve andare questo?

                 La campana della Matrice batté le due. Ero pronto. Misi il vassoio sul
              sedile posteriore e guidai fino alle villette della cooperativa Sole. Era
              un  venerdì,  l'assessore  era  sicuramente  a  casa.  I  politici  lavorano  dal

              martedì al giovedì: tutti, indistintamente, di qualunque ordine e grado.
              Suonai al citofono.

                 «Chi è?» La stessa voce di femmina dell'altra volta.
                 «Polizia»  dissi,  ed  entrai  nel  vialetto.  Il  giardino  era  rigoglioso,

              ancora più bello di quanto ricordassi. Io e Cripto entrammo nello stesso
              salone immenso, ma stavolta c'erano gli arredi. Tutti bianchi. Laccati,
              luccicanti.  Facevano  male  gli  occhi,  per  quanto  brillavano  bianchi.

              Calafiore voleva significare la sua purezza, con tutto quel candore.
                 Posai il vassoio di dolci su un tavolo di vetro. Ed eccolo spuntare,

              l'assessore: camicia e maglioncino, elegante come sempre. E sicuro di
              sé.

                 «Buongiorno» disse. «Che posso fare per voi stavolta?»

                 Rumori di stoviglie provenivano da una stanza lontana, ma il salone
              era  così  grande  che  ogni  piccolo  suono  nella  casa  lì  dentro
              rimbombava.  Si  sentivano  anche  i  bisbigli  dei  suoi  invitati:  lo  avevo
              beccato giusto in mezzo al pranzo. Che prìo.

                 «L'abbiamo disturbata?» chiesi.

                 «No» assicurò lui, smagliante.

                 Indicai  con  una  mano  il  vassoio poggiato  sul  tavolo, ma  non  capì:
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