Page 154 - Sbirritudine
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«Io non mi sono abituato affatto» gli risposi. «Io sono siciliano. E in
              Sicilia  la  violenza  è  una  forma  di  comunicazione,  ce  l'abbiamo  nel

              DNA.  La  morte  in  Sicilia  è  solo  un  segno,  e  come  tutti  i  segni  va
              interpretata.  Perché  lui?  Perché  ora?  Perché  qui?  Noi  sbirri  facciamo
              questo, in Sicilia: smorfiàmo le ammazzatine.»

                 Mi fissò, non era sicuro che parlassi sul serio. Mentre tornavamo in
              commissariato, mi domandò cosa fosse per me la mafia. Sorrisi. Era la

              prima  volta  che  qualcuno  me  lo  chiedeva:  quelli  che  la  combattono
              sono  così  impegnati  a  farlo  che  non  se  lo  chiedono,  e  nemmeno  ne
              parlano tra loro.

                 «Una  risposta  non  c'è»  gli  dissi.  «O,  almeno,  io  non  l'ho  ancora
              trovata.  C'è  la  definizione  ufficiale:  la  mafia  è  un'organizzazione

              segreta paramilitare.»
                 «E quella non ufficiale?»

                 «Davvero lo vuoi sapere?»

                 «Io  voglio  andare  fino  in  fondo,  ancora  non  lo  hai  capito?»  Disse
              così. Incazzato.

                 Sterzai  di  colpo  e  imboccai  l'uscita  per  l'autostrada.  Guidai  fino
              all'aeroporto. Posteggiai e gli feci segno di scendere.

                 «Vieni dentro con me» gli feci.

                 «Dove?»

                 «Vuoi vedere il fondo, no?»
                 Lui mi seguì fino al primo piano, alle partenze. Mi avvicinai all'area

              dei metal detector e feci cenno a un collega in divisa che passava di lì.
              Gli chiesi di parlare con le guardie che controllavano i passeggeri per
              farci  passare.  Una  volta  superati  i  controlli,  cercai  sui  monitor  delle

              partenze il volo per Roma. Uscita undici.
                 «Eccoli» dissi a Spada, «li vedi?» Gli indicai gli uomini in giacca e

              cravatta  seduti  sulle  poltroncine  della  sala  d'aspetto.  «Eccoli»  ripetei,
              «tutti con il giornale davanti. Appanzàti di cariche istituzionali, pieni di
              boria, coi capelli tagliati di fresco, la barba fatta e le unghie perfette.

              Scarpe da mezzo stipendio di un impiegato, abiti che una tredicesima
              non ci basta. E le vedi le loro facce? Quelle facce che solo loro hanno.
              Facce di minchia. Facce di merda. Facce di culo. Lì in mezzo c'è anche

              gente normale»  continuai,  «ma gli  stronzi li trovi sempre tutti qui, il
              lunedì mattina di ogni settimana. Volo Palermo-Roma. Basterebbe una
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