Page 126 - Sbirritudine
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«È nei verbali. È uno degli omicidi di cui ho parlato al magistrato.»

                 Dino Castrense. Era passata una vita. Mio padre morto, le mie serate
              da dj sballato, quella volta che Dino mi portò a buttane.

                 «Fu  Pasquale  Cantisàno,  il  nuovo  boss  di  Bonifacio,  a  volerne  la
              morte»  disse  Pitafi.  «Troverai  tutto  nelle  carte.  Lo  rapirono  e  lo
              torturarono  per  ore.  Cantisàno  voleva  che  Dino  gli  chiedesse  scusa

              davanti ai suoi uomini per averlo offeso, ma Dino non ne voleva sapere.
              Non  aveva  più  denti  in  bocca,  le  gambe  e  le  braccia  spezzate,  ma
              resisteva.  Allora  Cantisàno  fece  portare  la  trans  di  cui  Dino  era

              innamorato  e  la  fece  massacrare  di  botte  lì  davanti  a  lui.  Ma  Dino
              niente,  resisteva  ancora.  Poi,  quando  la  trans  morì  pestata  a  sangue,
              Dino  disse  a  Pasquale  Cantisàno  che  lui  come  boss  non  valeva  un

              cazzo,  perché  non  aveva  mai  avuto  i  coglioni.  Cantisàno  uscì  pazzo.
              Con  un  coltello  scippò  le  palle  della  trans  e  le  ficcò  in  gola  a  Dino,
              gridandogli che ora sì che lui aveva più coglioni di tutti. Ma Dino non
              poteva sentirlo, perché finalmente era morto.»

                 «Tu come lo sai?» gli chiesi.

                 «Me  l'hanno  raccontato.  Uno  degli  uomini  di  Cantisàno,  che  era  lì
              quella  notte. Anche  Dino  era  uno  che  non  piegava  la  testa  davanti  a

              nessuno» disse Pitafi. «Come te. E se lo sono asciugato.»
                 «Ma  lui  era  da  solo  contro  tutti»  obiettai.  «Dino  non  era  mafioso.

              Non era sbirro. Non era come gli altri.»
                 Pitafi  mi  guardò  dritto  negli  occhi.  «Però  era  solo,  come  te.»  Mi

              diede una pacca sulla spalla e tornò da sua moglie.

                 Nei  giorni  seguenti  passammo  al  setaccio  tutte  le  dichiarazioni  di
              Pitafi. Verificammo ogni affermazione, incrociammo le date, i luoghi e
              gli  omicidi.  Era  tutto  vero,  fino  all'ultima  parola.  Il  magistrato  era
              soddisfatto, ma prima di spiccare i mandati di cattura il pentito e la sua

              famiglia  dovevano  essere  trasferiti  al  Nord  in  una  località  protetta,  e
              Pitafi chiese che fossimo io e Cripto a scortarli e a restare con loro per i
              primi quindici giorni di ambientamento.

                 A mia moglie raccontai che dovevo partire per un corso. Sarei andato
              a Napoli per un paio di settimane. Lei non mi credette, ma non potevo

              dirle  la  verità.  «Alla  fine  del  corso  te  lo  danno,  un  aumento?»  mi
              chiese. Le dissi che non lo facevo per i soldi. Mi raccomandò di stare
              attento.
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