Page 121 - Sbirritudine
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La  mattina  andammo al solito bar.  Colazione e poi schitìcchio alle
              dieci  con  birra  e  stuzzichini.  Cercavamo  di  sembrare  tranquilli  e  di

              parlare di femmine, ma non riuscivamo a staccare gli occhi dal cancello
              della villa. Alle undici si aprì il portone e ne uscì l'auto di Nikolic, con
              lui a bordo. Bene. Avevamo tempo. Ma, dopo mezz'ora, Caterina non
              era  ancora  uscita.  Diventammo  nervosi.  Poi  tornò  l'auto  di  Nikolic.

              Adesso  era  un  casino:  l'appuntamento  telefonico  era  a  mezzogiorno.
              Infine,  dopo  altri  venti  minuti,  l'utilitaria  guidata  da  Caterina  sbucò
              fuori  e  si  avviò  verso  il  mercato.  Con  calma  le  andammo  dietro. Al

              mercato ci addentrammo tra le bancarelle effettuando un pedinamento
              alternato:  io  e  Cripto  davanti,  Tacconi  dietro  e  Caterina  al  centro.
              Arrivati al bar, Tacconi e Cripto si piazzarono vicino alle due uscite del
              locale, mentre io e lei ci avvicinammo alle vetrate. Da lì potevo tenere

              d'occhio la strada e vedere chi arrivava. Mentre componevo il numero
              al cellulare, io e Caterina non scambiammo una parola: ormai era stato
              detto tutto. Mi rispose il questore. Mi chiese se era tutto ok. Gli dissi di

              sì e che c'era una persona con me che voleva salutare un vecchio amico.
              Passai il cellulare a Caterina e vidi che aveva le mani che tremavano.
              Disse solo: «Sei tu?», poi rimase in silenzio ad ascoltare. «Va bene… sì,

              ci ho parlato. È qui accanto a me.» Parlavano di me. «Io sto bene, e i
              bambini? Salutameli. No, non me li passare, no!»

                 Ma Pitafi le passò uno dei figli. Vidi Caterina stracanciàre in viso. Da
              donna di mafia, fiera, ribelle, e ora compagna di un trafficante serbo, si
              trasformò sotto i miei occhi in una madre disperata e distrutta dai sensi

              di  colpa.  Scoppiò  a  piangere.  Le  tolsi  in  fretta  il  telefono  di  mano:
              alcuni tizi maliùti ci stavano guardando e non capivo una minchia di
              quello che dicevano. Avvertii il questore che dovevamo andare, poi la

              presi sottobraccio e la portai fuori. Cripto e Tacconi si piazzarono uno
              davanti  e  uno  dietro  di  noi.  Mentre  tornavamo  al  mercato,  dissi  a
              Caterina  che  doveva  sbrigarsi.  Doveva  tornare  a  casa,  preparare  una
              borsa con lo strettissimo indispensabile ed essere pronta a partire per

              l'indomani.

                 Lei  mi  guardò  sfrontata.  «Ho  preso  già  tutto,  è  tutto  qui  nella  mia
              borsa»  rispose,  e  me  la  indicò.  Era  una  di  quelle  borsette  striminzite
              dove non ci sarebbe entrato neanche un portafoglio con un mazzo di
              chiavi.

                 «Bene,  allora  ce  ne  andiamo  all'istante.»  Avvisammo  il  collega

              dell'Interpol,  corremmo  in  aeroporto  e  salimmo  sul  primo  volo
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