Page 120 - Sbirritudine
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importava niente.» Parlava piano. Faticavo a sentirla, nel casino di quel
              bar. Capii che non avevo bisogno di convincerla: era stanca della vita

              che  faceva  e  di  quella  che  aveva  fatto.  Proprio  come  Saro  Pitafi.  E
              anche lei, come lui, voleva parlare. Ne aveva bisogno. Voleva sfogarsi,
              dopo  un'esistenza  fatta  di  codici  del  silenzio,  di  gesti,  di  segnali,  ma
              mai di parole.

                 Mi  accennò  ai  suoi  figli,  che  non  sentiva  da  tre  anni.  Mi  raccontò

              come  conobbe  Dragan  Nikolic  e  di  come  decise  che  lui  poteva
              garantirle  la  sopravvivenza  lontano  dalla  Sicilia,  lontano  da  Prezia,
              lontano  da  tutto.  Mi  disse  che  Saro  le  mancava.  Che  le  era  mancato
              ogni giorno degli ultimi dieci anni. Lo amava ancora. Come quando,

              quasi bambina, lo aveva visto entrare in casa e crescere come il figlio
              che  suo  padre  avrebbe  voluto.  Quando  smise  di  parlare  iniziò  a
              piangere.

                 Le spiegai che le offrivo un modo per ricominciare. Anzi, era Saro
              che parlava con la mia bocca, era lui che le faceva quell'invito. Poteva

              riunire  la  sua  famiglia.  Aveva  fatto  bene  a  fuggire  da  tutto,  perché
              questo l'aveva preservata. Ma ora era arrivato il momento di rimettere
              insieme i pezzi.

                 «Come  faccio  a  sapere  se  è  vero  quello  che  dici?»  Anche  se  era
              pronta a partire in quell'istante, la sua diffidenza era sempre all'erta. Le

              confermai che le potevo provare tutto, bastava una telefonata. L'avrei
              fatta parlare con Saro e con i suoi figli.

                 «Quando? Ora?»

                 «No» le risposi. «Domani. Mi devi dare il tempo di organizzare la
              cosa. Domani esci di nuovo e ci vediamo qui. E io ti faccio parlare con
              loro.»

                 La sera con Cripto e Tacconi chiamammo l'Italia. Sentii il questore e
              feci  presente  che  serviva  un  ultimo  piccolo  sforzo  ed  era  fatta.  Mi

              assicurò  che  l'indomani  a  mezzogiorno  Pitafi  e  i  suoi  due  figli
              sarebbero  stati  nel  suo  ufficio.  Quella  notte  non  riuscii  a  dormire  di
              nuovo. E se Caterina ci avesse ripensato? E se quella pantomima al bar

              fosse  stata  solo  la  sua  capacità  mafiosa  di  tragediàre?  E  se  avesse
              parlato a Dragan Nikolic del nostro incontro? Ma così avrebbe rischiato
              di mettere in pericolo i suoi figli… No, mi era sembrata sincera. I suoi
              occhi  di  animale  ferito  si  erano  acquietati  quando  aveva  finito  di

              svuotarsi.
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