Page 117 - Sbirritudine
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gli alcolizzati e i tossici. Speravo che si sarebbe ripreso presto. Parlai
con Cripto e Tacconi. Loro non vedevano l'ora di andare.
Il questore ci diede dei liquidi che coprivano le spese di viaggio per
quattro giorni. Quello era il tempo massimo per convincere Caterina
Pitafi a rientrare in Italia. Fui messo in contatto con dei colleghi
dell'Interpol e venni a sapere che la donna viveva in un quartiere
residenziale di Belgrado, in una villa supersorvegliata. Il compagno era
un tale Dragan Nikolic, un ex militare che ora trafficava a tutto spiano.
Brutto come la morte, ma molto ricco e potente. Le autorità serbe
avevano provato a incastrarlo diverse volte, ma le sue amicizie
altolocate lo avevo sempre protetto. Quelli dell'Interpol mi avvertirono
anche che la Polizia locale era corrotta: non potevo fare affidamento su
di loro, o avrei corso il rischio di essere venduto allo stesso Nikolic, che
non ci avrebbe pensato due volte ad accopparmi. L'unica strategia
possibile era agganciare Caterina fuori dalla villa. A quanto pareva, il
rapporto che la legava al serbo era strano: lei cucinava, lavava, stirava,
faceva la spesa, come se fosse una cameriera. Nikolic era un paranoico,
non si fidava di nessuno, quindi affidava a lei compiti che altrimenti
avrebbero richiesto personale esterno corruttibile e infedele. Capii che
questo poteva essere un punto a mio favore: Caterina viveva una vita
agiata solo in apparenza. In pratica era una serva. Come mai era scesa
così in basso? Un tempo era una donna di mafia, figlia e moglie di boss.
Aveva rinunciato ai figli. Perché? Amava davvero questo Dragan
Nikolic?
Pensavo a tutto questo mentre in aereo sorvolavamo l'Adriatico. Una
volta atterrati, fummo avvicinati da un collega dell'Interpol serba,
affittammo un'auto e ci dirigemmo verso l'albergo. Belgrado era un
cumulo di palazzoni e di rassegnazione. Sembrava Palermo.
Pranzammo con dei panini e poi iniziammo l'appostamento davanti
alla villa di Nikolic, per stanare Caterina. Muro di cinta alto tre metri.
Cancello di ferro battuto. Telecamere dappertutto. Cani di grossa taglia
che abbaiavano di continuo scorrazzando nel parco che circondava la
villa. Quella di Nikolic era una fortezza. Ci piazzammo in un bar
vicino, fingendoci turisti italiani scemi che parlavano delle donne che si
erano fatti la sera prima e di altre che si sarebbero fatti la sera dopo.
Sapevamo che lì molti parlavano italiano e non volevamo insospettire il
proprietario del bar o i clienti che potevano avere a che fare con
Nikolic. Bevevamo e mangiavamo. Ordinavamo come se fossimo in