Page 12 - Sbirritudine
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con  nessuno.  Aspettai,  per  fargli  capire  che  non  avevo  paura.  Lo
              guardai  e  gli  dissi  che  io  a  lui  non  gli  avevo  mancato  di  rispetto. A

              Mario Merola, forse. E che se me lo avesse portato, allora magari a lui
              avrei potuto anche chiedere scusa.

                 Dino  mi  sorrise  e  mi  chiese  di  andare  con  lui  a  fare  una  cosa.  Mi
              portò in macchina fino alla contrada marinara del paese. Entrammo in
              una  villetta.  Un  bordello.  Puttane  dovunque.  Alcune  adolescenti.

              Accovacciate  su  materassi  di  lana  sventrati.  Vestite  con  sottane
              strappate. Avevano ciabatte di plastica e i piedi sporchi. Le pareti non
              erano dipinte e si vedevano le file di mattoni che formavano il disegno
              di sbarre fitte. Le finestre erano oscurate da sacchi appesi.

                 Dino si  avvicinò  a una di loro. Francesca, una  trans. Si baciarono.

              Un'altra  venne  verso  di  me.  Doveva  avere  cinquant'anni.  Mi  sorrise
              senza  denti.  Lui  la  cacciò  via.  Chiamò  due  per  nome,  erano  le  più
              giovani. Mi disse che potevo averle entrambe. Pagava lui. Perché avevo
              i coglioni e quindi li dovevo usare. Io gli risposi che non mi interessava

              e che lo avrei aspettato fuori. Ci rimase tre ore con Francesca. L'amava,
              ma sapeva che era una cosa troppo complicata da fare sapere in giro.
              Da quel giorno prese a raccontarmi tutto. Non so perché lo facesse. A

              poco a poco a trovarmi in radio venne solo lui. Gli altri avevano paura.
                 Dino  Castrense.  Chiaro  che  se  allora  fossi  stato  poliziotto  l'avrei

              arrestato.

                 A volte spariva per mesi. Andava al Nord a fare rapine e poi stava
              nascosto.

                 Mi  parlava  spesso  del  carcere.  Di  quello  che  gli  altri  detenuti  gli
              avevano  fatto.  Ogni  giorno  e  a  tutte  le  ore. A  tradirlo  e  farlo  finire
              dentro era stato Pasquale Cantisàno, il figlio del boss morto, quello a

              cui mio padre aveva fatto da piantone al funerale. Ogni volta che Dino
              incontrava  Pasquale  nel  corso  o  in  un  bar  della  piazza  del  paese,  lo
              guardava e senza dire una parola sputava a terra. Ci volevano i coglioni
              per  fare  questo  al  figlio  di  un  boss  del  calibro  di  Cantisàno.  Ma  per

              Dino  la  mafia  era  fatta  di  vigliacchi.  Tanti  vigliacchi  che  stanno
              insieme.  Pecore  che  si  fingono  lupi  perché  la  notte  nessuno  li  può
              distinguere. Lui era un uomo, diceva, e mafioso non lo sarebbe stato

              mai. Perché non aveva la testa di una pecora.
                 Una  mattina  come  tutte  le  altre,  Dino  si  trovò  davanti  Pasquale

              Cantisàno  che  da  neanche  un  mese  era  diventato  il  nuovo  boss.
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