Page 111 - Sbirritudine
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assonnata, comunque, era più femminile. Si vede che di notte abbassava
la guardia. Mi fece entrare e, quando le raccontai tutto, non riusciva a
crederci. Mi diede appuntamento per l'indomani alle otto: saremmo
andati insieme dal questore.
Non tornai a casa, andai in commissariato e mi rimisi a studiare il
fascicolo di Pitafi. Era difficile far combaciare le sue rivelazioni con
quello che avevo raccolto negli ultimi tempi, ma al momento non era
importante: a me interessavano i dieci omicidi di mafia che lui mi
aveva promesso. Quelli erano un fatto vero. Erano accaduti. Non erano
opinioni.
Alle sette ero già dalla Patania e la tirai giù dal letto. Andammo dritto
dal questore, che faticò a contenere il mio entusiasmo. Mi ascoltò fino
alla fine in silenzio, poi se ne uscì con una domanda: «Chi ci dice che
quello che promette poi Pitafi lo manterrà?».
Per un attimo fui sul punto di alzarmi e mandarlo a fanculo. Poi capii
che aveva ragione. Noi gli recuperavamo la moglie, e poi? Se la
rivoleva solo per ammazzarla? O se scappavano via insieme? Il
questore ci consigliò di chiedere un assaggio a Pitafi. Serviva qualcosa
di grosso che dimostrasse che lui era davvero disposto a pentirsi.
Giusto. Non ero stato lucido, mi ero fatto prendere dall'impazienza.
Dovevamo sprovarlo. Pitafi doveva vendersi qualcuno o non se ne
faceva niente.
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Dopo l'incontro con il questore, io e la Patania tornammo a Prezia.
Lei mi disse che ci voleva tempo per organizzarsi. Pitafi era uno di
quelli grossi, farsi dare una buona soffiata da lui poteva essere una cosa
lunga. La soluzione migliore, per come la vedeva lei, era passare la
palla a qualcuno capace di gestire la faccenda: di solito i pentimenti di
quel calibro erano di esclusiva competenza di squadre mobili e grosse
strutture investigative. La sentivo soltanto in sottofondo. La mia testa
era a mille, pensavo a come convincere Pitafi a darmi quello che
volevo. Ma quale tempo, quale organizzarsi? La Patania non capiva che