Page 106 - Sbirritudine
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                 Nel  buio  sentii  il  profumo  di  Paola.  Spezie,  maestrale,  pioggia  e
              gelsomini. Renzo era dietro di me e richiuse la porta. La seguimmo. I

              nostri  passi  rimbombavano,  quella  stanza  doveva  essere  un  ampio
              salone completamente vuoto. Una scala. Salimmo al primo piano e una
              luce lontana illuminò i contorni invitanti di Paola. Era a piedi nudi e un

              tubino nero le faceva da seconda pelle. Sembrava una gatta.
                 Arrivammo davanti alla porta socchiusa da cui proveniva la luce e lei

              la  aprì. Anche  questa  stanza  era  vuota.  Solo  un  tavolo  di  plastica  al
              centro,  di  quelli  da  giardino,  con  quattro  sedie.  Una  era  occupata  da
              Saro Pitafi. Avevo studiato il suo fascicolo. Era uno che comandava.

              Caporegime prima e sottocapo poi nella famiglia Imposimato, era quasi
              arrivato  al  vertice.  Ora  era  solo  un  re  senza  esercito,  ma  restava
              comunque una testa fine, uno che sapeva, uno che aveva attraversato
              tante volte il pericoloso confine tra lo Stato e la mafia.

                 La  sua  ultima  foto  segnaletica  risaliva  a  dieci  anni  prima:

              guardandolo, ci si accorgeva subito che la galera l'aveva segnato. Ma
              non come capita di solito con gli uomini d'onore, che quando escono
              dal carcere sono tutti simili, con la stessa espressione feroce, paziente,
              spietata. Saro Pitafi, invece, aveva occhi impauriti. La mascella gli si

              era assottigliata. Anche la barba pareva meno fitta. E gli zigomi, che un
              tempo  gli  scolpivano  il  viso  come  una  maschera  di  cattiveria,
              sembravano spariti. Era vestito con un paio di jeans e  una camicia a

              quadretti. Non aveva collane, né bracciali d'oro. Paola fece le veci della
              padrona di casa e ci invitò ad accomodarci. Renzo, finalmente, si era
              calmato.  Paola  guardò  prima  me  e  poi  Pitafi.  I  suoi  occhi  dal  colore

              inafferrabile non erano più lucidi come la sera prima.
                 Non avevo intenzione di parlare: toccava a Pitafi la prima mossa. Io

              ero  venuto  fin  lì.  Ma  lui  mi  guardava  come  se  fossi  stato  un  quadro
              appeso alla parete. Un quadro anonimo e inutile. Si aspettava che fossi
              diverso? Fu Paola a rompere il silenzio. Disse che Saro aveva un favore

              da chiedermi. Pitafi si schiarì la voce: adesso toccava a me. Dissi che
              ero venuto per ascoltare e che avrei fatto quanto possibile a patto che ci
              fosse una contropartita.
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