Page 44 - Potere criminale
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L. Innanzitutto perché – in questo e in altri casi – c’è un che di utopistico nel totalitarismo fascista,
           nell’idea  di  una  società  governata  attraverso  un’unica  catena,  che  dal  centro  verso  la  periferia
           trasmette la volontà statale-mussoliniana. L’altra ragione è che il fascismo, al di là delle considerazioni
           dei suoi superpoliziotti, non ha mai chiamato la classe dirigente a rendere conto delle sue complicità.
           Potremmo fare un’operazione molto semplice: vedere quanti dei mafiosi del secondo dopoguerra
          avevano fatto carriera nel periodo fascista. Non è necessariamente un metodo giusto, perché ce ne

          furono tanti altri che vennero stroncati e giusto per questo non li ritroviamo nel dopoguerra. Ma ho
          visto i documenti e le mappe del potere mafioso consegnate nel 1943 dai carabinieri agli americani,
           al  momento  in  cui  questi,  arrivando  in  provincia  di  Palermo,  chiesero  di  conoscere  i  nomi  dei
          mafiosi: i carabinieri prepararono un’eccellente mappatura, paese per paese, famiglia per famiglia.
          Ebbene, erano sempre gli stessi nomi del primo dopoguerra.

          S. Erano usciti indenni dai processi e dalle retate di Mori?


          L. Spesso erano le stesse persone che nella gran parte dei processi del 1926-30 avevano avuto pene
           irrisorie: sei mesi di carcere preventivo, due anni per associazione a delinquere, l’amnistia, due anni
           di confino. Nei rapporti di polizia quei figuri erano stati accusati di reati gravissimi, ma nei processi
           le accuse davvero gravi erano cadute quasi sempre. Bisogna dirlo: la montagna partorì il topolino.































































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