Page 33 - Potere criminale
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«robusta  barbarie»  di  cui  aveva  scritto  Giambattista  Vico,  portatori  di  valori  che  i  folcloristi
           ottocenteschi stanno cominciando a spiegare all’Europa progressista. E qui incontriamo Giuseppe
           Pitrè,  medico  del  quartiere  Borgo  di  Palermo,  folclorista  –  o  demopsicologo,  come  si  diceva  ai
           tempi – di fama mondiale, autore di preziose raccolte di proverbi, usi e costumi siciliani. Fu Pitrè a
           dare forma concettuale e teorica a questa immagine della mafia, in tre paginette destinate a diventare
           canoniche.


           S. Riepiloghiamo brevemente. «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti», diceva
           Pitrè. «La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di
           ogni  contrasto,  d’ogni  urto  d’interessi  e  di  idee;  donde  la  insofferenza  della  superiorità  e  peggio  ancora  della
          prepotenza altrui». E aggiungeva che il termine mafia, da quanto emergeva dalle sue ricerche, era stato usato in
          passato per definire la bellezza di una donna, il valore di un uomo, la grazia o la forza. Nulla a che fare quindi
          con il significato deteriore che aveva finito per assumere. Anzi. Questo concetto ha avuto fortuna e durata nel
          tempo: il boss corleonese Luciano Leggio citava lo stesso esempio, nel corso di una sua intervista con Enzo Biagi,

           parlando di un cavallo mafioso o di una donna mafiosa, come aggettivo di qualità estetica o morale...

           L.  La  definizione  di  Pitrè  è  stata  riproposta  come  parola  definitiva  della  «scienza»,  innumerevoli
           volte, nelle aule dei tribunali e nelle riviste giuridiche. Per cento e più anni, ha formato il fulcro delle
           fumose  pseudospiegazioni  fornite  dai  siciliani  ai  continentali  sull’essenza  nascosta  della  mafia.
           Logico che se ne siano serviti i mafiosi stessi.


           S. Ironicamente, ne riprenderà i termini Leonardo Sciascia in un racconto del 1960 intitolato «Filologia», nel
           quale un mafioso viene istruito da un uomo di cultura siciliano prima di un’audizione davanti alla Commissione
           parlamentare antimafia, per portare «un contributo alla confusione, si capisce... e te lo garantisco io che a un certo
           punto non si capirà più niente: tra storia, filologia e lettere anonime non si capirà più niente, niente...».

           L.  Chissà  quante  volte  sarà  successo,  direttamente  o  indirettamente.  D’altronde  Pitrè  usa  la  stessa
           tecnica  mistificatoria  per  la  parola  omertà,  che  per  lui  sta  per  omineità,  cioè  virilità:  il  siciliano

           avrebbe  un senso  poderoso  della  propria  virilità,  sarebbe  insomma  un  maschio  al  cubo,  che  non
           tollera  le  offese  e  quindi  qualche  volta  può  esagerare  nella  reazione.  La  parola,  invece,  viene  da
           umiltà, termine di derivazione massonica, che vuole indicare la regola dell’obbedienza all’interno di
           un’organizzazione segreta – proprio quanto si voleva occultare.

           S. Proprio negli stessi anni in cui Pitrè mette a punto la sua definizione di omertà e di mafia, lo stereotipo del
           siciliano focoso e mal disposto a subire le prepotenze si fa strada in tutta Europa sulle note della «Cavalleria
          rusticana» di Pietro Mascagni, ispirata alla novella di Giovanni Verga. Il cerchio dunque si chiude.

          L. Verga però parlava di una situazione diversa, quella della Sicilia orientale, e comunque di una

          cultura «di tutti», nella quale Pitrè tentava di occultare lo specifico mafioso. Ma la mafia e la società
           siciliana di fine Ottocento non erano la stessa cosa.

           S.  È  una  distinzione  sottile  e  difficile.  Sempre  restando  a  Verga,  infatti,  perché  non  considerare  Mastro  don
           Gesualdo il classico archetipo del mafioso?

           L. Mastro don Gesualdo rappresenta il prototipo del gabelloto che vorrebbe entrare a pieno titolo

           nella classe dirigente paesana e non ci riesce. Però la storia non è ambientata a Riesi, a Favara o a
           Corleone, ma a Vizzini, nella Sicilia orientale. Condizioni sociali simili non producono lo stesso
           risultato, a conferma che siamo di fronte a fenomeni specifici. Forse molti mafiosi di quel tempo
          erano simili a Mastro don Gesualdo, ma non credo che, creando il suo personaggio, Verga pensasse



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