Page 28 - Potere criminale
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Alle radici del falso mito














           Gaetano Savatteri La mafia prospera nel silenzio, si usa dire. Eppure ho l’impressione che attorno alla mafia
           siciliana ci sia stato ben poco silenzio, sin da subito dopo l’Unità d’Italia.

           Salvatore Lupo È così, infatti. Non è vero che attorno alla mafia c’è sempre stato silenzio. Anzi, c’è
           stato  molto  chiasso,  un  grande  rumore  e  un  acceso  dibattito  politico,  che  in  alcune  occasioni  ha

           raggiunto livelli elevatissimi. E questo fin dall’Unità d’Italia, non perché prima la mafia non esistesse,
           ma perché l’ingresso della Sicilia in un sistema di norme nazionali e generali, fa improvvisamente
           emergere la presenza di un fenomeno che sfugge e si contrappone al nuovo sistema giuridico e di
          regole di convivenza sociale.

          S.  La  mafia  quindi  trova  una  sua  prima  definizione  dopo  il  1861.  Eppure  già  nel  1838  il  procuratore  di
          Trapani, Pietro Calà Ulloa, ne aveva indicato la presenza in Sicilia.

          L. Parliamo però di un testo che ha tutt’altro intento. Il citatissimo Pietro Calà Ulloa era procuratore

          del re a Trapani, un bravo magistrato reazionario del governo borbonico. Cercando la rivoluzione e
          i  modi  di  frenarla,  tentando  di  individuare  le  modalità  con  cui  questi  siciliani  insubordinati
           potessero diventare dei sudditi ubbidienti del suo re, il procuratore di Trapani si interroga e ragiona
           sulle cause per le quali costoro sono così indisciplinati e non c’è modo di ricondurli all’ordine. E nel
           fare quest’analisi dice: «ci sono delle fratellanze, ci sono delle strane sette...». Nota che ne fanno parte

           l’arciprete e il possidente, comincia quindi a rilevare il carattere interclassista di queste aggregazioni.

           S. Possiamo dire che il procuratore di Trapani scopre la mafia incidentalmente, andando alla ricerca d’altro...

           L.  Non  dobbiamo  mai  dimenticarlo,  analizzando  il  testo.  E  difatti  quella  di  Calà  Ulloa  è  una
           definizione  assolutamente  insufficiente.  Perché?  Perché  il  funzionario  dei  Borbone  è  troppo
          impegnato a considerare illecito ciò che noi invece consideriamo lecito, cioè il dissenso politico.

           S. Mentre nella legislazione borbonica non è reato l’appartenere a una fratellanza?

           L. Per il procuratore di Trapani, il fatto che queste fratellanze o sette tramassero dissenso politico o
          abigeati era la stessa cosa. Ma attenzione allo spirito liberticida che rischia di inquinare le fonti in

          questa prima fase storica.

          S. Prima dell’Unità d’Italia non esisteva la parola mafia – quantomeno nell’accezione che ne diamo oggi –,
           perché nessuno ne parlava o perché nessuno in realtà aveva mai cercato una definizione?

           L. La mafia è un concetto, non è un oggetto. Non è come un tavolo o una pietra. Non è neanche
          semplicemente un crimine: per proibire la mafia per legge ci sono voluti centoventi anni. La mafia è

          un  fenomeno  sociale  talmente  complesso  da  non  potersi  racchiudere  in  una  formula  giuridica.
           Dunque,  la  mafia  è  una  costruzione  intellettuale  di  quella  che  in  senso  lato  possiamo  chiamare
           l’antimafia. L’antimafia concepisce che una serie di fenomeni deteriori debbano essere riassunti con
          una singola parola, con un singolo concetto e «inventa» la mafia. Non è che prima dell’Unità d’Italia



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