Page 24 - Potere criminale
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a partecipare con un saggio sul fascismo al volume Einaudi della Storia d’Italia (le regioni) dedicato alla
Sicilia, ancora insieme a Mangiameli, Barone, Recupero, e a molti altri. Nostro interlocutore era un
giovane funzionario dell’Einaudi, calabrese di formazione torinese, Carmine Donzelli: un
intellettuale brillante e un organizzatore culturale di rara capacità, col quale intrecciai allora un
sodalizio che non si sarebbe più spezzato, e che mi ha dato molto. Donzelli rilevò che l’immagine
stessa dell’opera sarebbe stata irrimediabilmente compromessa dall’assenza di un contributo specifico
sulla mafia, che Giarrizzo non aveva previsto, limitandosi a commissionare a un altro studioso
catanese (Rosario Spampinato) un breve intervento sulla secolare discussione sul tema. Come
sempre, l’argomento di Giarrizzo non era banale. Nei diversi contributi cronologicamente ordinati
che dovevano formare il volume, diceva, la mafia sarebbe comparsa, come gli altri oggetti e aspetti di
una ricostruzione generale. Così avvenne in effetti: nel saggio di Recupero sul Risorgimento, in
quello di Barone sul passaggio dall’Otto al Novecento, nel mio sul fascismo, in quello di
Mangiameli sul secondo dopoguerra, la mafia compare eccome, anche se (va detto) più che altro
nelle pieghe della lotta politica. Sono contento comunque che insieme a Donzelli, con una sorta di
colpo di mano, riuscimmo a far sì che fosse assegnato a Paolo Pezzino un saggio intitolato Stato
violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso. Un saggio importante e un concetto
illuminante, sul quale dovremo tornare più avanti.
S. Insomma, comincia a farsi strada la possibilità di raccontare la mafia sotto il profilo storico e non soltanto
sociologico.
L. Esatto. Pezzino insegnava a Pisa, in un’università dove gli studi contemporaneisti avevano grande
spazio e tradizione. Il suo interesse per la mafia non derivava dalle vaghe relazioni personali che lo
connettevano dal punto di vista biografico con la Sicilia, ma era di tipo squisitamente conoscitivo e
storiografico. E avrebbe dato risultati importanti. Vorrei poi citare gli storici di professione siciliani
che si erano già messi a quel tempo sulla strada della ricerca, come Giovanni Raffaele a Messina. Già
nel 1984 era uscito l’importante studio sul brigantaggio preunitario di Giovanna Fiume (la quale
insegna a Palermo, ma – sarà un caso? – non è palermitana e si è laureata a Catania). Ancora un
catanese, Catanzaro di cui abbiamo detto, pubblicò nel 1988 Il delitto come impresa, importante studio
sociologico ma che venne da lui stesso definito una «storia sociale della mafia».
S. Hai messo l’accento sulla necessità di una ricerca seria, di tipo documentario. Si rendevano disponibili in questa
fase nuove fonti, fino ad allora inedite?
L. Fonti nuove venivano ora utilizzate, insieme ad altre già in precedenza disponibili. È il caso della
cosiddetta inchiesta Bonfadini, ovvero gli atti della Commissione parlamentare sulle condizioni della
Sicilia nel 1875-76, pubblicati nel 1968, e da cui partì Pezzino per il suo primo studio sul nostro
argomento, apparso nel 1985 su un’importante rivista specialistica fiorentina, «Passato e Presente».
Della Commissione Bonfadini era nota la relazione conclusiva, anzi era famigerata per le giuste
critiche cui venne sottoposta da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Eppure le cose più
interessanti non stavano nella relazione, bensì nella documentazione.
S. Dai documenti dell’inchiesta salta fuori la storia del dottor Gaspare Galati, che hai ritenuto emblematica, e
tale sembra pure a me, per capire e spiegare la natura della mafia. Vogliamo raccontarla?
L. Nel 1872 il dottor Gaspare Galati, medico e agiato possidente palermitano, prova a impegnarsi
nella gestione di un suo agrumeto di quattro ettari in contrada Malaspina, nella borgata dell’Uditore.
Siamo in un periodo di boom, ma i redditi dell’agrumeto sono modesti. Galati individua il
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