Page 20 - Potere criminale
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storicamente la mafia scarso ruolo aveva avuto, piuttosto che sul versante nel quale storicamente era
           nata.

           S. Gli studiosi palermitani che hai citato però avevano esaminato e studiato approfonditamente le stagioni del
           movimento contadino e delle lotte per la terra, soffermandosi anche sulla mafia e sui suoi interessi...

           L. Però la dimensione del conflitto sociale veniva collocata non solo nel passato, ma in una sfera
           remota e anche mitica, in un’improbabile Sicilia senza città e tutta latifondi, laddove la relazione tra

          contadini e latifondisti era rappresentata come una sempiterna lotta dei buoni contro i cattivi, dalla
          rivolta di Bronte (1860) ai Fasci siciliani (1893-94) ai movimenti del secondo dopoguerra. Quanto
           alla mafia, la si considerava come un mero strumento dei proprietari per contrastare i contadini, e in
           quanto  tale  la  si  liquidava  come  parte  integrante  di  quel  passato  –  destinata  a  esaurirsi  con  esso.
           Restava invece da spiegare, nell’ottica della vulgata sicilianista, perché alla dissoluzione della società
           rurale latifondistica avesse fatto seguito non il collasso, bensì l’incrudimento del fenomeno mafioso.

          Inoltre non potevo non chiedermi come mai la Regione a statuto speciale, questa creatura dipinta a
           tinte così rosee, avesse dato un risultato così cattivo sul piano della democrazia, del senso civico,
           dell’efficienza amministrativa. Mi convinsi che lo slogan del «siamo tutti sulla stessa barca», tipico del
           regionalismo,  fosse  incompatibile  con  un  discorso  di  opposizione,  determinando  un’atmosfera
           torbida di solidarismi silenziosi e sostanzialmente complici.

           S. Vorrei capire se queste insoddisfazioni etico-politiche abbiano indirizzato le tue ricerche storiche o se sia successo

           il contrario.

           L. Diciamo che esiste una stretta relazione tra il mio rifiuto del sicilianismo e i risultati delle mie
           prime  esperienze  sul  campo  come  storico.  La  mia  tesi  di  laurea  riguardava  una  rivista  diretta
           dall’economista palermitano Giuseppe Frisella Vella, nata nel 1924 col nome di «Problemi siciliani»,
           ribattezzata negli ultimi anni del regime «Problemi mediterranei». Attraverso la rivista vennero fatti
           transitare nel fascismo temi esasperatamente regionalisti già emersi nel dopoguerra precedente e che

           furono consegnati al separatismo nel dopoguerra seguente. Mi colpiva la lunga tenuta di una retorica
           per cui si negava ogni contrasto di interessi o di idee all’interno della Sicilia, mentre tutti i mali di
          noi siciliani andavano addebitati a un complotto ordito dai continentali ai nostri danni. L’ideologia
           sicilianista mi apparve lo strumento per cementare l’egemonia delle classi dirigenti e la logica di un
          «blocco agrario» (uso l’espressione gramsciana allora molto in voga tra gli storici di sinistra), nel quale
          accanto  ai  latifondisti  stavano,  senza  esprimere  nessuno  spirito  di  contraddizione,  proprietari  e
           imprenditori  interessati  a  settori  dinamici,  commercializzati  e  «capitalistici»:  ad  esempio,  quelli

           dell’agrumicoltura, cui Frisella Vella era molto attento. Il mio lavoro di tesi ebbe un parziale sbocco
           editoriale in un volume di saggi – oltre al mio, c’erano quelli di Barone, Rita Palidda e Marcello
           Saija, con la prefazione di Manacorda – intitolato Potere e società in Sicilia nella crisi dell’Italia liberale
           (1977). Come noterai, sin dal titolo era chiara l’intenzione di tenere saldamente connessa la storia
           siciliana a quella nazionale.

           S. Iniziava così la tua carriera universitaria?


           L.  Macché.  Gli  ingressi  alla  docenza  nell’università  italiana  sono  avvenuti  per  cicli  di  apertura,
           alternati  a  cicli  di  feroce  chiusura.  Fui  escluso  dalla  fase  di  più  largo  e  facile  accesso,  quella  della
           prima metà degli anni Settanta, per ragioni anagrafiche (mi ero laureato nel 1975). Sposato a soli
           vent’anni, avevo un figlio e dopo essermi arrangiato nel periodo degli studi avevo assoluto bisogno
           di  lavorare.  Prima  di  laurearmi,  avevo  provato  con  successo  un  concorso  di  «aiuto-biliotecario».



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