Page 21 - Potere criminale
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Presi dunque servizio alla Sovrintendenza bibliografica a Catania, per poi trasferirmi alla Biblioteca
           universitaria statale sempre a Catania. Il direttore era Salvatore Mirone, persona notevole, un vero
           intellettuale.  Mi  trovavo  bene,  avevo  davanti  una  carriera.  Però  l’esclusione  dall’università
           rappresentava per me un cruccio.

           S. C’è da stupirsi che tu non abbia rinunciato, come fecero molti altri.

           L. Invece continuavo ostinatamente a impegnarmi nella ricerca, nei ritagli di tempo e nelle ferie. Era

           una passione. Naturalmente conservavo un legame con i «manacordiani» anche dopo il trasferimento
           a  Roma  di  Manacorda,  e  con  l’università  attraverso  Barone,  il  primo  di  loro  a  salire  di  grado
           accademico.

           S. Erano anni turbolenti a Catania, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. La città stava cambiando aspetto
           e la mafia mostrava il suo volto in un territorio ritenuto tradizionalmente indenne dall’influenza di Cosa Nostra.
          Qualcuno se ne accorse in tempo reale: si chiamava Pippo Fava.


          L.  Fava  non  era  ben  visto  nel  mio  ambiente,  in  particolare  da  chi  ricordava  la  sua  ostilità  nei
          confronti  del  movimento  studentesco  nel  ’68  e  la  sua  vicinanza  agli  ambienti  dell’establishment
          cittadino. Partecipai molto marginalmente dell’esperienza del «Giornale del Sud», quotidiano da lui
          diretto dal 1980 alla fine del 1981 con l’idea di rompere il monopolio del quotidiano cittadino «La
           Sicilia». Ma non mi convinceva il suo stile che tanto puntava sulla cronaca, con un taglio che mi
           sembrava  scandalistico,  e  l’accentramento  estremo  di  ogni  decisione  nella  figura  del  direttore,
           peraltro l’unico giornalista esperto di una redazione formata da tanti giovani. Si aggiunga che su Fava

          giravano  molte  voci  calunniose.  Non  sapevo  allora  quanti  nemici  si  stesse  facendo  e  quanto
           strumentalmente costoro lavorassero a mettere in giro maldicenze. Tutt’oggi mi dispiace di non aver
           allora capito quanto fosse sporco questo gioco.

           S. Voci, calunnie, sospetti contro un giornalista coraggioso: una storia molto siciliana.

           L. Eccome. Come oggi sappiamo da atti certi, uno dei suoi finanziatori, il cavalier Graci, cercò di
           mettergli il bavaglio e al suo rifiuto lo licenziò. Fu allora che Fava fondò il periodico «I Siciliani»,

          dove  –  in  particolare  –  trovarono  spazio  le  rivelazioni  del  generale  Carlo  Alberto  Dalla  Chiesa
          dell’agosto  1982  (formulate  dunque  a  poche  settimane  dal  suo  assassinio)  sull’asse  esistente  tra  la
           Cosa Nostra palermitana, il boss Santapaola e i Cavalieri del lavoro catanesi. Grande fu lo choc in
           una  Catania  profondamente  segnata  dall’omertà,  abituata  al  silenzio  sul  reale  potere  affaristico-
           politico-criminale  cittadino.  Il  mutamento,  ahimé,  non  fu  duraturo,  anche  perché  Fava  l’avrebbe
           pagato con la vita, quel suo coraggio.


           S. Ma tutto questo non ti suscitava delle riflessioni, soprattutto come storico?

           L. Il dramma che si stava consumando mi colpiva come colpiva tutti. Non era facile però collegare le
          urgenze della drammatica congiuntura con la riflessione colta, specie con quella storiografica che sul
          tema,  come  ho  detto,  sembrava  avesse  ben  poco  da  dire.  Leggevo  dunque  i  libri  degli  scienziati
          sociali: quello di Henner Hess, Mafia, pubblicato nel 1973; quello del 1974 di Anton Blok, The
          Mafia of a Sicilian Village: 1860-1960, di cui assieme a Barone avevamo preso cognizione durante un

           viaggio in Inghilterra e che consigliammo a Einaudi per la traduzione in italiano; è del 1980, invece,
          il  volume  di  Pino  Arlacchi  su  Mafia,  contadini  e  latifondo  nella  Calabria  tradizionale.  In  tutte  queste
          opere, come abbiamo accennato, la mafia era vista come il comportamento proprio di una società
          tradizionale.  Soprattutto,  con  ostinazione  degna  di  miglior  causa,  si  negava  potesse  trattarsi  di



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