Page 23 - Potere criminale
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tardi un mercato nazionale.

           S. Ma la mafia con questo cosa c’entrava?

           L. C’entrava eccome. Gli agrumi destinati agli Stati Uniti venivano coltivati per una parte molto
          grande nell’agro palermitano, nella cosiddetta Conca d’Oro. Era un’economia sviluppata in cui la
           mafia  era  presente,  anzi  lo  era  come  in  nessun  altro  ambiente:  una  mafia  impegnata  in  traffici  e
          commerci, nella custodia di impianti redditizi, insediata nelle borgate circostanti Palermo – altro che

           paesi dell’interno e campagne desolate!

           S. Dunque la mafia poteva essere figlia della modernità?

           L.  In  alcuni  casi  era  proprio  così.  Mi  feci  un’idea  delle  forzature  che  avevano  permesso
           l’elaborazione  di  un’immagine  tutta  primitivistica,  delle  censure  che  erano  state  necessarie  per
           occultare quanto era ben chiaro già nelle fonti ottocentesche. Cominciai a capire perché il fenomeno
           non  fosse  scomparso,  né  si  fosse  trasformato,  sino  a  diventare  irriconoscibile,  all’avvento  della

           modernità. Esposi i primi risultati di questa riflessione in un saggio che intitolai Nei  giardini  della
           Conca d’Oro. Era il 1983.

           S.  Il  periodo  terribile  delle  guerre  di  mafia,  delle  mattanze  mafiose,  dei  cadaveri  eccellenti.  Il  momento  in  cui
           «Sagunto veniva espugnata», tanto per citare una frase celebre sulla Palermo di quegli anni...

           L. Ma erano anche gli anni di un primo riarmo della società civile, della politica e delle istituzioni.
          Se  parliamo  di  dibattiti  disciplinari  o  accademici,  chiaro  che  quello  tra  i  giuristi  era  il  più
          importante.  La  riflessione  storiografica  non  poteva  avere  un  diretto  impatto  sugli  eventi,  si

           sviluppava in una nicchia periferica e (tra l’altro) senza alcun contatto con il movimento antimafia
           nascente a Palermo. Era però importante che desse anch’essa un segnale. Grazie all’iniziativa e alla
           «copertura»  accademica  di  Barone,  il  mio  saggio  comparve  su  una  rivista  milanese  (e
          settentrionalista) come «Italia contemporanea», a formare quasi un numero monografico insieme a
          un contributo di Mangiameli sul secondo dopoguerra, e al testo di un terzo catanese, Raimondo
           Catanzaro, il più brillante tra i sociologi allora impegnati sul tema.


           S. I tuoi colleghi come guardavano a questo nuovo filone di studi? Ci credevano, lo prendevano in considerazione?

           L. Non ti nascondo che i più nemmeno se ne accorgevano. C’era innanzitutto, e c’è tutt’oggi, una
          generale,  bizzarra  difficoltà  degli  studiosi  settentrionali  a  interessarsi  della  storia  meridionale  (e,
           specularmente, dei meridionali a farsi sentire). A Nord come a Sud, ma perfino tra gli stessi siciliani,
          c’era chi si diceva scettico sulla stessa conoscibilità dell’oggetto mafia. C’era pure chi mi consigliava
          di  dedicarmi  ad  altro  se  ci  tenevo  a  essere  preso  sul  serio  come  storico  e  a  fare  carriera
           nell’accademia: tra questi (che paradosso!) qualcuno in seguito ha firmato libri sulla mafia, pur senza

           aver mai condotto vera ricerca nel campo. Col tempo il problema è diventato proprio questo: si
           sono moltiplicati i libri sulla mafia, ma i contributi di ricerca restano pochi e preziosi, al punto che è
           difficile distinguerli sul banco di una libreria, nella massa di volumi che ripropongono all’infinito gli
           stessi stereotipi. Ecco perché molti restano tuttora convinti che qualsiasi storiografia sul tema sarà
           necessariamente di serie B. D’altronde, c’è chi la pensa in questo modo per qualsiasi tipo di storia

           sociale.

           S. Puoi raccontare qualche episodio specifico?

           L. Ti racconterò piuttosto quello che accadde quando Giarrizzo e Maurice Aymard mi chiamarono



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