Page 25 - Potere criminale
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problema in un guardiano che «ruba» (ma forse bisogna parlare di suoi accordi con i sodali che
commerciavano il frutto, intesi a tenere il prezzo basso). Licenziato il guardiano, il problema si
aggrava, perché la locale cosca mafiosa, capeggiata da certo Antonino Giammona, non gradisce: il
nuovo sorvegliante nominato dal proprietario viene ucciso, un altro viene intimidito e ferito. Galati,
dopo essersi trasferito a Napoli con la famiglia, denuncia i fatti, fa ricorso alla sua rete di amicizie,
trova ascolto dall’autorità, che per la prima volta sembra accorgersi del marciume esistente. La storia
è emblematica, certo, e si può usare per comprendere alcuni meccanismi base.
S. Quali?
L. Fondamentalmente tre. Primo: la cosca mafiosa scoraggia i concorrenti e chiunque sia
eventualmente chiamato dal proprietario a soppiantarla nelle sue funzioni. Punisce i ladri, garantisce
le transazioni legali, preleva una tangente che è tanto maggiore quanto più il proprietario è estraneo
alla sua rete di relazioni, però mantiene un atteggiamento deferente nei confronti dei proprietari,
specialmente quelli borghesi come Galati. Secondo: la compattezza della cosca è garantita da riti di
iniziazione, riposa su un meccanismo di associazione legale e addirittura morale (i mafiosi
dell’Uditore sono «terziari di san Francesco», cioè appartenenti a un ordine religioso laicale). Terzo:
le fortune della cosca derivano da un riconoscimento da parte delle classi dirigenti che ha una lunga
durata nel tempo, come ben sa l’avvocato di Giammona presentandolo come campione della «lega
degli abbienti contro i non abbienti» nella fase dei rivolgimenti risorgimentali. Bisogna dire che a un
certo punto, dopo il mutamento politico di metà anni Settanta dell’Ottocento, le autorità di polizia
cominciano a considerare criminali Giammona e soci: gli stessi cui aveva guardato fino a poco
tempo prima come fidati collaboratori, capaci di tenere a freno con i loro sistemi la criminalità
comune. Un concetto che un magistrato di allora definì efficacemente con queste parole: «la mafia è
il rimedio omeopatico della criminalità».
S. Giammona era un capo mafioso di un certo spessore o un mafiosetto di borgata?
L. Era un grande capo, il cui potere era destinato a durare nel tempo. Lo ritroviamo infatti indicato
come il grande vecchio della mafia palermitana in un documento di valore straordinario, scritto oltre
vent’anni dopo il caso Galati, che rinvenni a Roma, all’Archivio centrale dello Stato: lo chiamai
«rapporto Sangiorgi», dal nome del questore palermitano che firmò le centinaia di pagine che lo
compongono. Il documento nel 1898-1900 descriveva le varie cosche, il loro campo d’azione, i
loro delitti, i loro capi.
S. Con il materiale dell’inchiesta Bonfadini e il rapporto firmato dal questore Ermanno Sangiorgi avevi tra le
mani una ricca documentazione per approfondire la tua analisi: cosa ne ricavasti?
L. Il rapporto Sangiorgi mi consentiva di penetrare più a fondo, perché deriva da informazioni e
informatori collocati all’interno di quello che il documento definiva «il tenebroso sodalizio».
Schematizzo ancora cosa ricaviamo dalla lettura del rapporto. Primo: anche qui la mafia mantiene un
atteggiamento di deferenza verso le élites. Fa ricorso all’omicidio nel caso di guerre intestine e,
normalmente, per punire i cani sciolti, gli intrusi, gli indisciplinati. La sanzione massima non
colpisce i proprietari terrieri, di cui i mafiosi si limitano, all’occorrenza, a danneggiare i beni.
Secondo: la mafia ci viene qui descritta come un insieme di gruppi territoriali, radicati nelle borgate
e nei paesi dell’hinterland palermitano. Però in questo caso vediamo anche il meccanismo e le
istituzioni grazie a cui le cosche riescono a coordinarsi tra loro – o nonostante i quali, talora, si
scontrano sanguinosamente. Terzo: la polizia viene indotta a scoprire quello che le è già ben noto
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