Page 27 - Potere criminale
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secondo  versante  ero  consapevole  dell’esistenza  di  una  documentazione  formidabile  quanto  poco
          analizzata:  quella  della  Commissione  parlamentare  antimafia.  Quanto  al  periodo  più  recente,  mi
           proponevo  di  ragionare  sull’altro  enorme  giacimento  documentario  creato  dal  pool  di  Giovanni
          Falcone e Paolo Borsellino, l’istruttoria del maxiprocesso.

          S.  Naturalmente  nel  tuo  libro,  seppur  dentro  un’impostazione  storica,  non  potevi  non  tener  conto  degli  studi
           sociologici e antropologici, non foss’altro per prenderne le distanze. O no?


           L. Sapevo benissimo e so che lo studio della mafia, quanto e più di altri argomenti di storia sociale,
           ha bisogno di tenersi in una fitta relazione con i metodi della sociologia e dell’antropologia. La mia
          polemica  era  indirizzata  contro  gli  studi  cattivi,  non  contro  le  discipline  stesse.  Effettivamente
           contributi  importanti  erano  venuti  da  quei  versanti,  immediatamente  prima  dell’uscita  del  mio
          libro, con i lavori di Catanzaro e con il volume di Diego Gambetta La mafia siciliana. Un’industria
          della protezione privata. Gambetta sostiene che la mafia offre un servizio di protezione. Tesi robusta

          che permette espliciti consensi e dissensi. Ho sempre pensato che vada anche considerato l’elemento
           dell’estorsione, perché molte volte la mafia protegge da minacce create ad arte da essa stessa.

           S. Il tuo libro uscì nel 1993. Mi ricordo che per chi, come me, faceva il giornalista e da anni si occupava di storie di
           mafia, fu una sorpresa trovare un testo che finalmente, dentro un’impostazione storica, non faceva a pugni con
           quanto raccontavamo, giorno dopo giorno. Inoltre, aveva un bel passo narrativo...

           L. Quello della scrittura non fu un problema da poco. Infatti, le fonti per una storia della mafia in
          molti  casi  sono  carenti,  ma  in  altri  sono  invece  sovrabbondanti,  e  rischiano  di  schiacciare  lo

          studioso. Mi spiego meglio: le transazioni mafiose hanno sempre più o meno la stessa dinamica. C’è
          il meccanismo della protezione/estorsione, nella quale non si capisce mai se prevalga il primo o il
           secondo  termine  del  binomio,  se  l’imprenditore  sia  vittima  o  complice  dei  mafiosi.  C’è  la
           costruzione di un complesso sistema di regolamenti interni, codici e codicilli, che vale a sancire la
           solidarietà interna della cosca o famiglia mafiosa. C’è la violazione di quelle regole che porta a usare

           la violenza intestina, giustificata con argomentazioni di varia natura, ma intesa sempre ad affermare la
           supremazia di una fazione sulle altre. In altre parole, c’è il problema che una storia non può ridursi a
          un’eterna ripetizione con un’infinita sovrapposizione di casi e di nomi; ma neppure a una serie di
           exempla astratti, che collocano i fenomeni sociali fuori dal tempo e dallo spazio. Gli scienziati sociali
           fanno talora ricorso all’espediente dei nomi convenzionali per persone e luoghi. Rifuggo da questo
           malvezzo, perché la storia della mafia è fatta proprio da relazioni tra persone in luoghi specifici, da
           genealogie e signorie territoriali di lungo periodo. Temevo però di rendere incomprensibile il testo,

           moltiplicando all’infinito i nomi e i luoghi. È poi vero che nei diversi periodi e contesti (politico,
           economico, sociale, istituzionale) l’impatto del fenomeno mafioso è differente. Bisognava rendere
           conto degli incontri della mafia con la grande storia, dei molteplici intrecci tra la prima e la seconda.
          Bisognava tenere insieme continuità e rottura: era questa la grande sfida.




















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