Page 22 - Potere criminale
P. 22

un’organizzazione vera e propria. Ora, la mafia che ci trovavamo davanti era palesemente il frutto di
           una  pur  distorta  modernità,  ed  era  vista  dagli  inquirenti  come  una  poderosa  e  pericolosissima
           organizzazione. Quella letteratura si poneva dunque solo in parte come uno stimolo, ma possiamo
          dire che per un’altra parte rappresentasse addirittura un ostacolo sulla strada della ricerca.

          S. Però nel 1983 «La mafia imprenditrice», sempre di Pino Arlacchi, segna un passaggio importante: lo studioso
           racconta la trasformazione della mafia da soggetto specializzato nella mediazione degli interessi del mondo agricolo

           a protagonista della nuova accumulazione di capitali nella società moderna, cioè la mafia che si fa impresa.

           L.  Veramente,  come  abbiamo  già  detto,  dubito  che  la  mafia  possa  essere  definita  un’impresa  e  il
           mafioso  un  imprenditore.  Ma  il  punto  non  è  tanto  questo.  Arlacchi  non  aveva  il  coraggio  di
           prendere  con  nettezza  le  distanze  dallo  schema  interpretativo  «primitivista»  cui  aveva  così
          acriticamente aderito. Sosteneva che lo schema valeva per il passato, quando la mafia era davvero (ma
          quando lo è mai stata?) onorifica, paciosa, disinteressata al denaro, ma non per il presente, perché la

          mafia  aveva  cambiato  completamente  pelle  facendosi  gangsteristica,  sanguinaria  e,  appunto,
           imprenditrice. Giudicavo allora la contrapposizione fuorviante e così la penso ancor oggi: quella che
           va  compresa  è  proprio  la  relazione  di  (parziale)  continuità  o  (parziale)  discontinuità  tra  passato  e
           presente. Sul tema dell’organizzazione inoltre Arlacchi continuava a riferirsi alla vecchia posizione
           negazionista, senza porre in un credibile contesto interpretativo le informazioni in senso contrario
           che, pure a pezzi e bocconi, gli giungevano dagli ambienti giudiziari. D’altronde, il suo riferimento
           alle  fonti  restava  episodico,  privo  di  vaglio  critico.  L’analisi  non  raggiungeva  mai  il  livello

           «scientifico» – almeno per quanto un simile argomento possa essere trattato scientificamente, e per
           quanto le scienze sociali possano aspirare alla scientificità.

           S. In effetti proprio negli stessi anni, per l’esattezza nell’ottobre del 1984, il pool dei magistrati di Palermo di cui
          faceva parte Giovanni Falcone aveva reso pubbliche le dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Ciò che veniva fuori
          dalla «cantata di don Masino», come scrivevano i giornali, non era un modo di essere o un comportamento diffuso:
           nomi, organigrammi, competenze, territori, affari, relazioni di Cosa Nostra adesso erano sotto gli occhi di tutti. E

           svelavano la presenza di una potente organizzazione criminale.

           L.  Quello  fu  il  vero  punto  di  svolta  che  accentuò  la  nostra  insoddisfazione  per  lo  schema
           interpretativo «culturalista» cui si ispirava un po’ tutta la letteratura corrente.

           S. E tu come hai provato a uscirne?

           L.  Ripartendo  dai  temi  base  della  mia  ricerca.  La  società  siciliana  otto-novecentesca  nel  suo
           complesso mi pareva non identificabile con un modello di società tradizionale. Barone, Mangiameli
           e io organizzammo a Catania un convegno sulla storia meridionale di inizio Novecento, intitolato

          La modernizzazione difficile. Pensavamo che non ci fosse solo il latifondo, ma che la modernità avesse
          coinvolto e – perché no – squassato il Mezzogiorno e ancor più la Sicilia con la costituzione dello
           Stato unitario, lo sviluppo di sistemi rappresentativi e movimenti di massa, con la connessione col
           più vasto mondo determinata dall’emigrazione, dall’esportazione di zolfi e agrumi.

           S. Quest’ultimo è un argomento che hai trattato particolarmente.


           L. Sin dai tempi della tesi di laurea ero andato avanti con la ricerca sul tema che avrebbe avuto il suo
           primo  sbocco  pubblicistico  nel  1984.  Gli  agrumi  di  Sicilia  erano  stati  sin  dagli  anni  Trenta
           dell’Ottocento indirizzati in maggioranza verso il ricco mercato statunitense e per una parte minore
          verso la Gran Bretagna; solo molto più tardi si sarebbe creato un mercato mitteleuropeo e ancor più



                                                                     22
   17   18   19   20   21   22   23   24   25   26   27