Page 26 - Potere criminale
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dall’input proveniente dal potere politico, e dal primo grande scandalo mafioso di portata nazionale,
          provocato dall’assassinio di Emanuele Notarbartolo, importante uomo politico ed ex direttore del
          Banco di Sicilia. Infine, il confronto tra gli atti dell’inchiesta Bonfadini e il rapporto Sangiorgi indica
          la straordinaria tenuta nel tempo dei gruppi egemoni del potere mafioso. Già alla fine dell’Ottocento
           si parla, nei rapporti di polizia, di «alta mafia dei Ciaculli», una definizione che viene usata solo per i
          Greco, la stessa famiglia che fino a una trentina di anni fa ha dominato la borgata di Ciaculli.


          S. Se è vero che la storia si fa sui documenti, allora eri ormai pronto a scrivere la tua storia della mafia. Come
           nacque l’idea?

           L. Beh, per il momento mi sembrò necessario rendere pubblico il contenuto del rapporto Sangiorgi
           e il ragionamento che si poteva fare su di esso. Lo feci in un seminario organizzato a Napoli dalla
           collega Marcella Marmo, che stava cominciando a studiare storicamente la camorra, e in un articolo
           che intitolai Il tenebroso sodalizio, pubblicato nel 1988 su «Studi storici», una delle riviste italiane di

           punta. Il tentativo della Marmo e mio era di portare all’attenzione del circuito storiografico nazionale
           la storia meridionale, e quel suo particolare argomento così scabroso in tutti i sensi. Nel frattempo
          avevo  finalmente  messo  il  primo  piede  nell’accademia,  ma  cominciando  dal  fondo  (dal  ruolo  di
          ricercatore),  in  un  luogo  che  mi  era  piuttosto  estraneo,  la  facoltà  di  Economia  dell’Università  di
          Napoli,  e  tale  per  me  sarebbe  rimasto.  Le  difficoltà  accademiche  mie  personali  e  quelle  di  un
           discorso nuovo sulla storia del Sud mi sembravano un tutt’uno, ma ovviamente si tratta di due ordini
          di grandezza non comparabili.


          S.  Questo  è  anche  il  periodo  in  cui  nasce  «Meridiana»,  e  con  essa  una  nuova  storiografia  –  qualcuno  dice
          «revisionista» – sul Mezzogiorno.

          L. Sì, infatti. È un punto di svolta di cui va merito soprattutto all’asse formato da Piero Bevilacqua,
          uno storico calabrese di brillante ingegno, e Carmine Donzelli, che avevo conosciuto al tempo della
           Sicilia Einaudi. Fondammo così l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes) e «Meridiana.

           Rivista di Storia e Scienze sociali», con l’idea di dare spazio a un’idea di Mezzogiorno buono o
          cattivo, ma comunque moderno, la cui storia risultava intrecciata a quella delle grandi trasformazioni
          del mondo contemporaneo. Cominciammo organizzando una serie di seminari a Copanello, località
           vicina a Catanzaro, nella quale furono coinvolti storici siciliani, calabresi, pugliesi – più diffidenti
           sono stati sempre i napoletani. Non spetterebbe a me dirlo, ma il lavoro di scavo e conoscenza fatto
           in vent’anni sui numeri monografici di «Meridiana» è stato formidabile (la rivista esce tutt’oggi e ne
           sono  il  condirettore).  Nel  frattempo  Donzelli  aveva  lasciato  l’Einaudi  ed  era  passato  a  dirigere

          Marsilio, con cui pubblicai il volume che coronava i miei studi sull’agrumicoltura (Il giardino degli
          aranci, 1990). Ma Donzelli, spinto da un dinamismo interiore implacabile, voleva creare una casa
          editrice che portasse il suo nome. Lo fece nel 1993, e subito mi chiese di scrivere per lui un libro
          sulla mafia. Accettai.

           S. Un impegno non da poco...

           L.  Certo,  perché  Donzelli  premeva  per  avere  un  testo  coi  caratteri  della  completezza,  che

           proponesse un unico percorso di lettura dall’Unità d’Italia a oggi. Conoscevo abbastanza bene la fine
           dell’Ottocento grazie allo straordinario contributo del rapporto Sangiorgi, e l’affare Notarbartolo di
          cui avevo scritto su «Meridiana», dopo averne parlato a Copanello nel corso di un grande seminario
           che parve fondativo dei nuovi studi sull’argomento. Sul fascismo e sull’operazione Mori non avevo
           problemi. Sapevo invece troppo poco sul periodo postunitario e sull’età repubblicana, ma su questo



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