Page 19 - Potere criminale
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L. Ma noi non saremmo stati eventualmente in grado di riconoscere la mafia in quegli ambienti, e
nemmeno nei figuri di cui si contornava Carmelo Costanzo – massimamente in colui che stava
emergendo come il boss cittadino, Benedetto Santapaola, detto Nitto. Certo, eravamo molto critici
verso il Pci, che considerava personaggi del genere come interlocutori affidabili di un improbabile
«patto dei produttori», ma non perché ci vedessimo un meccanismo di collusione mafiosa, bensì per
la deplorevole subordinazione del movimento operaio agli interessi del capitalismo – di un
capitalismo che sapevamo particolarmente corrotto e dipendente dall’aiuto pubblico, certo.
S. Insomma, nutrivi molte perplessità sul discorso politico che in Sicilia veniva portato avanti dai comunisti...
L. Sì, in particolare per la faciloneria con cui veniva attribuita la patente del progressista a chi non ne
aveva i titoli, per l’abuso dell’argomento sulla difesa degli interessi siciliani contro i «monopoli» del
Settentrione. Risentivo gli echi della vicenda di fine anni Cinquanta, quando, invocando gli stessi
interessi, i comunisti si erano ridotti a fare da supporto al governo regionale presieduto da Silvio
Milazzo, un’ibrida alleanza comprendente (tra l’altro) la destra neofascista. Vedevo che, ancora sulla
base del medesimo argomento, i comunisti si preparavano a sottoscrivere un «patto autonomistico»
con la Democrazia cristiana. Temevo che avremmo avuto su scala regionale il peggio di quello che a
me già appariva il peggio, il compromesso storico. Proprio in polemica con questo tipo di strategie,
Mineo parlava già da tempo di «borghesia mafiosa». Ma, devo ribadirlo, nemmeno noi del
«manifesto» comprendevamo allora a Catania l’importanza della sua polemica.
S. Insomma i comunisti erano regionalisti, ma come le altre forze politiche e come molta parte dell’opinione
pubblica siciliana.
L. Come gli altri, certo. Però in una situazione come quella degli anni Settanta, nella stagione del
compromesso storico e del patto autonomistico, questo posizionamento diveniva assai
condizionante non solo per la politica, ma anche per la cultura e in particolare per gli studi sulla
storia recente della Sicilia. Ti sintetizzo in poche battute la vulgata che era diffusa allora e che forse è
diffusa ancor oggi. I latifondisti – si diceva – avevano oppresso i contadini come lo Stato unitario
aveva oppresso i siciliani almeno fino al secondo dopoguerra, quando i partiti avevano ottenuto
l’autonomia regionale, anche utilizzando lo choc (lo storico Massimo Ganci diceva: il «pugno sul
tavolo») del movimento separatista. Nel corso di lussuosi convegni organizzati negli sfarzosi saloni
dell’Assemblea regionale, si guardava al passato, ma dal punto di vista di quello sbocco escatologico,
delle luminose sorti e progressive della Sicilia autonoma. Gli storici di sinistra (Ganci appunto,
Francesco Brancato, Carlo Marino, Francesco Renda) si univano al coro, sia pure con diversità di
accenti e con qualche distinguo.
S. Parli di storici palermitani o comunque radicati a Palermo.
L. La regione ha la sua «capitale» a Palermo. A Palermo c’è il suo «Parlamento» (così enfaticamente lo
si chiama), e quindi non casualmente l’intera storia della Sicilia viene vista da Palermo in una
prospettiva ossessivamente regionalista. Nella mia testa, la differenza tra quella «vecchia» storiografia
e la storiografia nuova corrispondeva alla differenza tra Palermo e Catania. Catania guardava alla
storiografia nazionale, cui aveva dato un grandissimo come Rosario Romeo. A Catania insegnava
Giuseppe Giarrizzo, preside della facoltà di Lettere, lo storico forse più illustre tra quelli rimasti a
lavorare nell’isola, uno dei pochi a essersi mantenuto immune dalle lusinghe del sicilianismo. A
Catania c’erano le forze giovani e vivaci, gli allievi di Manacorda. Il quadro vale anche a rispondere
alla tua domanda di prima, sul perché si sia cominciato a fare storia della mafia sul versante in cui
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