Page 18 - Potere criminale
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L. Sì. Mi sono iscritto al corso di laurea in Filosofia a Catania nel 1970, ma optando per un piano di
studi storico. Fu dunque naturale che, al pari di altri studenti politicizzati (ed erano tanti in quegli
anni!), privilegiassi la storia contemporanea che dal 1965 era insegnata da un docente di grande
fascino e prestigio come Gastone Manacorda. Già direttore prima di «Società» e poi di «Studi
storici» – due imprese cruciali nella formazione della cultura comunista italiana –, Manacorda non si
era presentato col piglio militante che ci si aspettava da lui, ma con un appello a ragionare sulle fonti,
a lavorare con rigore, a rifuggire dal facile ideologismo. Come «continentale» in Sicilia, come
studioso di livello nazionale e internazionale finito a insegnare storia contemporanea (tra i
primissimi nel nostro paese) in periferia, provò a porre le basi di una storiografia regionale, ma non
di taglio regionalista.
S. C’era già una grande tradizione di studi storici. Non sembra possibile che si dovesse ricominciare da capo a fare
storia della Sicilia.
L. Nel campo della storia medievale e moderna magari no, ma in quello della contemporanea le cose
stavano proprio così. E comunque c’era una tradizione, soprattutto a Palermo, che considerava
l’isola come un mondo diverso, da trattarsi separatamente dal resto d’Italia e con strumenti
intellettuali differenti da quelli adottati altrove. Peraltro, Manacorda era consapevole che la stessa
storia nazionale avesse da guadagnare dall’attenzione alla storia regionale, in particolare se parliamo di
una regione così ricca di conflitti, cultura e discussioni pubbliche come la Sicilia. Per usare una sua
frase: dal punto di vista siciliano, si possono vedere prospettive e vedute d’insieme diverse rispetto a
quelle che si scorgono dalle finestre del Principe, ovvero dai punti culminanti dello sviluppo.
S. Oltre a te, chi erano gli allievi di Manacorda?
L. Tra quelli che hanno lavorato sulla mafia o su argomenti simili, citerò Giuseppe Barone e Rosario
Mangiameli. Non era allievo di Manacorda ma entrò nel suo giro Nino Recupero, fine studioso e
intellettuale carismatico che oggi purtroppo non c’è più. Ne potrei ricordare altri, giovani e
politicamente orientati a sinistra. Mangiameli e io, ad esempio, militavamo nel «manifesto».
S. Un’area dentro la quale già allora si affrontava la questione della mafia.
L. Sì, ma nel gruppo palermitano piuttosto che in quello catanese. A Palermo «il manifesto» era
guidato da Mario Mineo, personaggio di rilievo, di tutt’altra generazione rispetto alla nostra, già
deputato nel dopoguerra alla Consulta regionale siciliana ed estensore di uno dei progetti di Statuto,
poi passato attraverso varie esperienze nella sinistra, senza radicarsi in nessuna in particolare, a causa
– diciamo così – del suo eccessivo spirito critico. Ricordo quando discutevamo di mafia con lui e
con Umberto Santino, che avrebbe fatto dell’antimafia una ragione di vita: Mineo sosteneva che in
Sicilia, come nel dopoguerra ai tempi del movimento contadino, la mafia fosse ancora il problema
centrale. A me e agli altri del nostro gruppo, catanesi e tanto più giovani di lui, sembrava un vecchio
ossessionato dal passato e dai conflitti del passato, ossessionato da altri vecchi con le coppole storte,
gli abiti di fustagno e così via. D’altronde non eravamo gli unici a pensarla così: anche a livello
nazionale nel «manifesto» nessuno gli prestava orecchio, tanto che lui e i suoi seguaci si sarebbero
tirati fuori ben presto anche da quell’esperienza.
S. Ma nella Catania di allora non c’era la discussione sui grandi imprenditori cittadini, i cosiddetti Cavalieri del
lavoro, cioè Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro e Mario Rendo? Stavano all’interno di
una rete di relazioni di cui facevano parte anche esponenti e gruppi mafiosi.
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