Page 16 - Potere criminale
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Una storia difficile














           Gaetano Savatteri L’episodio dell’archivista di Palermo deciso a non far vedere i documenti ci porta direttamente
          alla tua attività di ricerca e di studio. Ci mostra le difficoltà che hai incontrato, anche di carattere più generale. È
          molto strano infatti che fino al 1993, quando hai pubblicato per Donzelli la tua «Storia della mafia», nessuno
          avesse mai ritenuto di poter scrivere di quest’argomento dal punto di vista strettamente storico, con una visione

          complessiva. C’erano molti libri, ovviamente, una letteratura vastissima, ma erano testi sociologici, interventi
          giornalistici, romanzi o saggi di costume. Un ritardo, dal punto di vista dalla scienza storica, di oltre un secolo
          rispetto al dibattito politico e sociale sulla mafia.

          Salvatore Lupo Sì, questo è vero per quanto riguarda gli storici. Ma non vuol dire che non ci siano
           stati contributi, diciamo scientifici, di cultori di altre scienze sociali. La discussione sulla mafia ad
           esempio  vide  tra  Otto  e  Novecento  fondamentali  contributi  di  personaggi  come  Leopoldo
          Franchetti, Gaetano Mosca e, per un aspetto singolo ma cruciale, Santi Romano.


          S. Quale aspetto?

          L. Romano è un grande giurista palermitano di inizio Novecento, universalmente noto per la sua
           teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, secondo la quale coesistono nello stesso tempo e
           nello  stesso  luogo,  accanto  a  quello  statale,  altri  ordinamenti  importanti  (ad  esempio  quello
           ecclesiastico) o minori (ad esempio quello di una federazione sportiva), che il più delle volte non

           sono  antagonistici  all’ordinamento  statale  –  a  meno,  certo,  che  non  assumano  un  atteggiamento
           eversivo  o  rivoluzionario.  Romano  stesso  cita  tra  gli  esempi  possibili  quello  di  «certe»
          organizzazioni segrete e criminali, e dei loro ordinamenti.

          S. Quindi ordinamenti antistatali?

          L. Non antistatali – questo è il punto – almeno finché non si mettono in testa di fare concorrenza
          all’ordinamento  «maggiore»,  statale.  Non  possiamo  nemmeno  dirli  «comunitari»,  perché  non
          riguardano  tutti  i  membri  di  una  comunità  ma  solo  i  componenti  del  gruppo  criminale.  Vorrei

           ricordare  un’applicazione  davvero  geniale  della  teoria  di  Romano  da  parte  dell’etnogiurista  sardo
           Antonio  Pigliaru,  che  nel  suo  libro  del  1959,  La  vendetta  barbaricina  come  ordinamento  giuridico,
           definisce  la  faida  come  ordinamento  giuridico  prestatale  comune  a  tutta  la  società  pastorale  della
           Barbagia; da distinguersi dunque dalla mafia e dal suo ordinamento che riguarda un sottogruppo
           particolare. Ecco, con Romano e Pigliaru siamo sulla strada giusta.

           S. Intuizioni che tu definisci geniali, ma ancora fuori dal campo della scienza storica...


           L.  Esatto.  Potrei  aggiungere  il  contributo  importantissimo  di  Emilio  Sereni,  grande  studioso  di
          storia agraria e dirigente comunista degli anni Trenta e Quaranta, che andò a collocare la questione
           mafiosa  in  una  grande  discussione  storiografica:  quella  sul  latifondo  meridionale.  Sereni  –
           riprendendo le fila di un dibattito quasi secolare – vide la mafia come uno strumento del ceto sociale
           dei gabelloti, cioè gli affittuari dei latifondi, una sorta di variante locale e mancata di borghesia. La



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