Page 24 - L'onorata società
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ottengono  una  maggiore  crescita  media  del  5  per  cento.  Un  altro  studio
          condotto  da  Catalyst  su  353  aziende  incluse  nella  classifica Fortune  500
          afferma che nelle società con una significativa presenza femminile a livello
          di  top  management  si  registra  un  Roe  (Return  on  equity,  vale  a  dire  il

          ritorno  sul  capitale  investito)  nettamente  migliore.  Ulteriore  conferma,
          stavolta  da  una  ricerca  italiana:  il  Cerved  (la  più  ampia  banca  dati  a
          disposizione delle imprese), prendendo in considerazione un campione di
          aziende  nostrane,  rileva  che  «le  imprese  condotte  da  donne,  a  parità  di

          altri  fattori,  hanno  un  minore  rischio  di  default».  In  pratica,  ne  esce  un
          profilo di investitrici prudenti e maggiormente orientate alle scelte di lungo
          periodo.
              Invece, riguardo alla valorizzazione della componente femminile l'Italia

          è  all'anno  zero.  E  magari  il  problema  riguardasse  solamente  le  posizioni
          manageriali e dirigenziali. Abbiamo il tasso di occupazione femminile più
          basso d'Europa: il 46,6 per cento, rispetto al 54,7 della Spagna, al 60 della
          Francia,  al  64  della  Germania  e  al  65,5  della  Gran  Bretagna.  La  media

          dell'Europa a 27 Paesi (comprese, dunque, le new entry dell'Est) è del 58,3
          per  cento,  quasi  12  punti  superiore  alla  nostra.  Divari  che  crescono
          ulteriormente se si pensa che al Sud e nelle Isole le donne che lavorano
          sono appena il 31,1 per cento.

              Non  ci  vuole  molto  a  capire  che  ci  troviamo  di  fronte  a  un  bacino  di
          intelligenze,  di  energie,  di  competenze  assolutamente  sottoutilizzato.  E
          che,  al  contrario,  bisognerebbe  sfruttare.  Un  recente  studio  della  Banca
          d'Italia stima che con il 60 per cento di donne occupate (la percentuale non

          è scelta a caso, visto che rappresentava l'obiettivo stabilito dagli accordi
          internazionali di Lisbona del 2000, da raggiungere nei successivi dieci anni,
          cioè  entro  il  2010),  vale  a  dire  2  milioni  e  600  mila  in  più,  il  nostro  Pil
          salirebbe tra il 6 e il 9 per cento all'anno. Non è tutto: riducendo il divario

          di lavoro femminile tra Nord e Sud di un milione e 700 mila unità, il Pil
          aumenterebbe di 4-6 punti. Se poi si giungesse alla piena parità, ovvero se
          il  tasso  di  occupazione  femminile  salisse  al  livello  di  quello  maschile,  la
          ricchezza  del  Paese  crescerebbe  addirittura  del  17,5  per  cento,

          corrispondenti a 260 miliardi all'anno.
              Cifre colossali. Per il nostro Paese, che si muove tra regole arcaiche e
          dove  prevale  una  mentalità  conformista,  sarebbe  la  panacea.  Niente  da
          fare. Siamo costretti ad ascoltare dibattiti televisivi e a leggere paginate

          sui  giornali  che  hanno  per  oggetto  vere  o  presunte  "favorite  di  corte",
          veline  e  letteronze  che  rischiavano  di  essere  addirittura  catapultate  al
          Parlamento europeo. «Ciarpame senza pudore,» per citare Veronica Lario,
          (ex) signora Berlusconi «in nome del potere e a sostegno del divertimento

          dell'imperatore.»  Mai  una  volta  che  si  discuta  del  ruolo  effettivo  della
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