Page 25 - Gomorra
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moda del mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di formazione,
non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla macchina per cucire, dalla
piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla merce spedita. Null'altro che un
rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa era superflua. La formazione la facevi al
tavolo da lavoro, la qualità imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente
finanziamenti, niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O
vendi o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate tra le
più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una ricchezza saccheggiata,
presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio buco. Arrivavano da ogni parte per
investire, indotti che producevano confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti,
guanti, cappelli, scarpe, borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In
queste zone dagli anni '50 non v'era necessità di avere permessi, contratti, spazi.
Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la concorrenza
cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualità media. Non ha più dato
spazio di crescita alla manualità degli operai. O lavori nel migliore dei modi subito o
qualcuno saprà lavorare a un livello medio in maniera più veloce. Un numero elevato
di persone si sono trovate senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti
stritolati dai debiti, dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza.
C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualità ha esaurito il respiro,
la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra l'emblema. Con le case
sempre illuminate e piene di gente, con i cortili affollati. Le macchine sempre
parcheggiate. Nessuno che esce mai di là. Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In
nessun momento della giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al
mattino quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un rumore
continuo di abitato. Parco Verde a Caivano.
Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di catrame che
taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto che un quartiere, una
paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni
balcone. Sembra uno di quei posti che l'architetto ha progettato ispirandosi alle
costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia
che vengono fuori rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un
angolo una cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata
così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio mausoleo dedicato a
un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro che in certe zone è persino peggio
del lavoro nero in fabbrica. Ma è un mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva
sempre di sabato, tutti i sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa
ora, stessa strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il