Page 187 - Gomorra
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Don  Peppino  sfidò  il  potere  della  camorra  nel  momento  in  cui  Francesco
            Schiavone, Sandokan, era latitante, quando si nascondeva nel bunker sotto la sua villa
            in  paese,  mentre  le  famiglie  Casalesi  erano  in  guerra  tra  loro  e  i  grandi  affari  del
            cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non
            voleva  fare  il  prete  consolatore,  che  accompagna  le  bare  dei  ragazzini  soldato
            massacrati alla fossa e bisbiglia "fatevi coraggio" alle madri in nero. In un'intervista

            dichiarò: "Noi dobbiamo fendere la gente per metterla in crisi". Prese anche posizione
            politica,  chiarendo  che  la  priorità  sarebbe  stata  la  lotta  al  potere  politico  come
            espressione  di  quello  imprenditorial-criminale,  che  l'appoggio  sarebbe  andato  ai
            progetti concreti, alle scelte di rinnovamento, non ci sarebbe stata alcuna imparzialità
            da  parte  sua.  "Il  partito  si  confonde  con  il  suo  rappresentante,  spesso  i  candidati

            favoriti dalla camorra non hanno né politica né partito, ma solo un ruolo da giocare o
            un  posto  da  occupare."  L'obiettivo  non  era  vincere  la  camorra.  Come  lui  stesso
            ricordava  "vincitori  e  vinti  sono  sulla  stessa  barca".  L'obiettivo  era  invece
            comprendere,  trasformare,  testimoniare,  denunciare,  fare  l'elettrocardiogramma  al
            cuore  del  potere  economico  come  un  modo  per  comprendere  come  spaccare  il
            miocardio dell'egemonia dei clan.


                 Mai per un momento nella mia vita mi sono sentito devoto, eppure la parola di don
            Peppino aveva un'eco che riusciva ad andare oltre il tracciato religioso. Foggiava un
            metodo nuovo che andava a rifondare la parola religiosa e politica. Una fiducia nella
            possibilità  di  azzannare  la  realtà,  senza  lasciarla  se  non  dilaniandola.  Una  parola
            capace di inseguire il percorso del danaro seguendone il tanfo.


                 Si  crede  che  il  danaro  non  abbia  odore,  ma  questo  è  vero  solo  nella  mano
            dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. E è un puzzo di latrina.
            Don Peppino operava in una terra dove il danaro reca traccia del suo odore, ma per un
            attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare
            legittimazione. Simili odori si sanno riconoscere solo quando le narici si strofinano
            contro  ciò  che  li  emana.  Don  Peppino  Diana  aveva  compreso  che  doveva  tenere  la
            faccia su quella terra, attaccarla sulle schiene, sugli sguardi, non allontanarsi per poter

            continuare a vedere e denunciare, e capire dove e come le ricchezze delle imprese si
            accumulano e come si innescano le mattanze e gli arresti, le faide e i silenzi. Tenendo
            sulla  punta  della  lingua  lo  strumento,  l'unico  possibile  per  tentare  di  mutare  il  suo
            tempo: la parola. E questa parola, incapace al silenzio, fu la sua condanna a morte. I
            suoi killer non scelsero una data a caso. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo del

            1994. Mattina prestissimo. Don Peppino non si era ancora vestito con gli abiti talari.
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