Page 190 - Gomorra
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l'orgoglio, l'anarchismo, la lotta al crimine, la pulizia, la rabbia costante e perenne, il
            meridionalismo. Qualcosa. Non un gancio a cui appendersi. Piuttosto una radice sotto
            terra,  inattaccabile.  Nell'inutile  battaglia  in  cui  sei  certo  di  ricoprire  il  ruolo  di
            sconfitto, c'è qualcosa che devi preservare e sapere. Devi essere certo che si rafforzerà
            grazie  allo  spreco  del  tuo  impegno  che  ha  il  sapore  della  follia  e  dell'ossessione.
            Quella  radice  a  fittone  che  si  incunea  nel  terreno  ho  imparato  a  riconoscerla  negli
            sguardi di chi ha deciso di fissare in volto certi poteri.


                 I  sospetti  sull'omicidio  di  don  Peppino  caddero  subito  sul  gruppo  di  Giuseppe
            Quadrano, un affiliato che si era posto al fianco dei nemici di Sandokan. C'erano anche
            due  testimoni:  un  fotografo  che  si  trovava  lì  per  fare  gli  auguri  a  don  Peppino  e  il
            sagrestano  della  chiesa  di  San  Nicola.  Appena  iniziò  a  circolare  la  notizia  che  la

            polizia aveva orientato i suoi sospetti su Quadrano, il boss Nunzio De Falco detto "'o
            lupo", che stava a Granada in Andalusia, dote nella spartizione territoriale dei poteri
            tra  Casalesi,  telefonò  alla  Questura  di  Caserta  per  chiedere  un  incontro  con  dei
            poliziotti  e  chiarire  le  questioni  che  riguardavano  un  affiliato  al  suo  gruppo.  Due
            funzionari  della  Questura  di  Caserta  lo  andarono  a  incontrare  nel  suo  territorio.
            All'aeroporto la moglie del boss andò a prendere i due e si inoltrò con la macchina
            nelle bellissime campagne andaluse. Nunzio De Falco li aspettava, non nella sua villa a

            Santa Fé, ma in un ristorante dove con grande probabilità la maggior parte dei clienti
            erano  figuranti  pronti  a  intervenire  in  caso  i  poliziotti  avessero  commesso  qualche
            imprudenza.  Il  boss  subito  chiarì  che  li  aveva  chiamati  per  fornire  la  sua  versione
            sull'episodio, una sorta di interpretazione di un fatto storico e non una delazione o una
            denuncia. Una premessa chiara e necessaria per non infangare il nome e l'autorevolezza
            della famiglia. Non poteva mettersi a collaborare con la polizia. Il boss dichiarò senza

            perifrasi  che  a  uccidere  don  Peppino  Diana  erano  stati  gli  Schiavone,  la  famiglia
            rivale.  Avevano  ucciso  il  prete  per  far  cadere  sui  De  Falco  la  responsabilità
            dell'omicidio. "'O lupo" sostenne che non avrebbe mai potuto dare ordine d'uccidere
            don Peppino Diana, visto che suo fratello Mario gli era molto legato. Don Diana era
            infatti riuscito a non farlo diventare un dirigente del clan, a tenere con lui un dialogo
            capace di sottrarlo dal Sistema camorra. Era uno dei risultati più forti di don Peppino,
            ma  il  boss  De  Falco  lo  usò  come  suo  alibi.  A  dare  manforte  alle  tesi  di  De  Falco

            intervennero  altri  due  affiliati  al  clan:  Mario  Santoro  e  Francesco  Piacenti.  Anche
            Giuseppe Quadrano era in Spagna. Prima andò ospite nella villa di De Falco, poi si
            stabilì in un paese vicino a Valencia. Voleva mettere su un gruppo, aveva tentato di fare
            affari  con  dei  carichi  di  droga  che  avrebbero  dovuto  fungere  da  acceleratore
            economico per edificare l'ennesimo clan imprenditorial-criminale italiano nel sud della

            Spagna.  Ma  non  ci  riuscì.  In  fondo  Quadrano  era  sempre  stato  un  comprimario.  Si
            consegnò alla polizia spagnola dichiarandosi disponibile a collaborare con la giustizia.
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