Page 173 - Gomorra
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tornati alla famiglia. H destino di Passarelli è stato quello di un commerciante che per
la sua qualità imprenditoriale aveva ricevuto capitali che mai avrebbe potuto gestire, e
li ha fatti levitare in maniera egregia. Poi è arrivato l'intoppo, le inchieste giudiziarie, e
lo stesso patrimonio non è riuscito a difenderlo dal sequestro. Come la qualità
d'aziendalista gli aveva dato un impero, così la sconfitta dei sequestri gli aveva dato la
morte. I clan non permettono errori. Quando segnalarono a Sandokan, durante un
processo, che Dante Passarelli era morto, il boss serenamente disse: "Pace all'anima
sua".
Il potere dei clan rimaneva il potere del cemento. Era sui cantieri che sentivo
fisicamente, nelle budella, tutta la loro potenza. Per diverse estati ero andato a lavorare
nei cantieri, per farmi impastare cemento non mi bastava altro che comunicare al
capomastro la mia origine e nessuno mi rifiutava il lavoro. La Campania forniva i
migliori edili d'Italia, i più bravi, i più veloci, i più economici, i meno rompicoglioni.
Un lavoro bestiale che non sono mai riuscito a imparare particolarmente bene, un
mestiere che ti può fruttare un gruzzolo cospicuo solo se sei disposto a giocarti ogni
forza, ogni muscolo, ogni energia. Lavorare in ogni condizione climatica, con il
passamontagna in viso così come in mutande. Avvicinarmi al cemento, con le mani e
col naso, è stato l'unico modo per capire su cosa si fondava il potere, quello vero.
Fu quando morì Francesco Iacomino però che compresi si no in fondo i meccanismi
dell'edilizia. Aveva trentatré anni quando lo trovarono con la tuta da lavoro sul
selciato, all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D'Annunzio a Ercolano.
Era caduto da un'impalcatura. Dopo l'incidente erano scappati tutti, geometra
compreso. Nessuno ha chiamato l'autoambulanza, temendo potesse arrivare prima della
loro fuga. Allora, mentre scappavano, avevano lasciato il corpo a metà strada, ancora
vivo, mentre sputava sangue dai polmoni. Quest'ennesima notizia di morte, uno dei
trecento edili che crepavano ogni anno nei cantieri in Italia si era come ficcata in
qualche parte del mio corpo. Con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di
quelle che somigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa.
Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che
arriva a Milano con la volontà di far saltare in aria il Pirellone per vendicare i
quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un'esplosione in miniera, nel maggio
1954, nel pozzo Camorra. Chiamato così per le infami condizioni di lavoro. Dovevo
forse anch'io scegliermi un palazzo, il Palazzo, da far saltare in aria, ma ancor prima di
infilarmi nella schizofrenia dell'attentatore, appena entrai nella crisi asmatica di rabbia
mi rimbombò nelle orecchie “l'Io so” di Pasolini come un jingle musicale che si
ripeteva sino all'assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria, sono