Page 165 - Gomorra
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del dispositivo del processo, calò il silenzio. I respiri pesanti, il deglutire di centinaia
            di gole, il ticchettìo di centinaia di orologi, il vibrare silenzioso di decine di cellulari
            privati della suoneria. Il silenzio era nervoso, accompagnato da un'orchestra di suoni
            d'ansia di contorno. Il presidente iniziò a leggere prima l'elenco dei condannati, poi
            quello degli assolti. Ventuno ergastoli, oltre settecentocinquanta anni di galera inflitti.
            Per ventuno volte il presidente ripetè la condanna di carcere a vita, e spesso ripeteva
            anche  i  nomi  dei  condannati.  E  altre  settanta  volte  diede  lettura  degli  anni  che  altri

            uomini,  i  gregari  e  i  manager,  dovevano  trascorrere  in  carcere  per  pagare  il  prezzo
            delle  loro  alleanze  con  il  terribile  potere  casalese.  All'una  e  mezzo  tutto  stava  per
            concludersi.  Sandokan  chiese  di  parlare.  Si  agitava,  voleva  reagire  alla  sentenza,
            ribadire  la  sua  tesi,  quella  del  suo  collegio  difensivo:  che  lui  era  un  imprenditore
            vincente,  che  un  complotto  di  magistrati  invidiosi  e  marxisti  aveva  considerato  la

            potenza  della  borghesia  dell'agro  aversano  una  forza  criminale  e  non  il  frutto  di
            capacità  imprenditoriali  ed  economiche.  Voleva  sbraitare  che  la  sentenza  era
            un'ingiustizia. Tutti i morti del casertano, nel suo solito ragionamento, venivano ascritti
            a  faide  dovute  alla  cultura  contadina  del  posto  e  non  a  conflitti  di  camorra.  Ma  a
            Sandokan  quella  volta  non  fu  permesso  di  parlare.  Venne  zittito  come  uno  scolaro
            rumoroso. Iniziò a sbraitare e i giudici fecero togliere l'audio. Si continuò a vedere un
            omone barbuto che si dimenava sino a quando anche il video si spense. L'aula si svuotò

            immediatamente, i poliziotti e i carabinieri andarono lentamente via, mentre l'elicottero
            continuava a sorvolare l'aula bunker. È strano, ma non avevo la sensazione che il clan
            dei Casalesi fosse stato sconfitto. Molti uomini erano stati sbattuti per un po' di anni in
            carcere,  dei  boss  non  sarebbero  più  usciti  di  galera  per  tutta  la  loro  vita,  qualcuno
            magari avrebbe col tempo deciso di pentirsi e riprendersi così un po' di esistenza fuori
            dalle  sbarre.  La  rabbia  di  Sandokan  doveva  essere  quella  asfissiante  dell'uomo  di

            potere che possiede nella testa l'intera mappa del suo impero, ma non può controllarla
            direttamente.

                 I  boss  che  decidono  di  non  pentirsi  vivono  di  un  potere  metafisico,  quasi
            immaginario,  e  devono  fare  di  tutto  per  dimenticare  gli  imprenditori  che  loro  stessi
            hanno sostenuto e lanciato e che, non essendo membri del clan, riescono a farla franca.
            I boss, se ne avessero voglia, potrebbero far finire in galera anche loro, ma dovrebbero

            pentirsi,  e  questo  interromperebbe  immediatamente  la  loro  autorità  massima  e
            metterebbe a rischio tutti i loro familiari. E poi, cosa ancora più tragica per un boss,
            molte  volte  i  percorsi  dei  loro  danari,  i  loro  investimenti  legali,  non  riuscirebbero
            neanche a mapparli. Pur confessando, pur svelando il loro potere non saprebbero mai
            sino in fondo dove sono finiti i loro soldi. I boss pagano sempre, non possono non

            pagare. Ammazzano, gestiscono batterie militari, sono il primo anello dell'estrazione di
            capitale  illegale  e  questo  renderà  i  loro  crimini  sempre  identificabili  e  non  diafani
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