Page 149 - Gomorra
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Quando guardo i ritratti di Michail Kalashnikov penso sempre ad Alfred Nobel,
famoso per il premio omonimo, ma in realtà padre della dinamite. Le foto di Nobel
negli anni successivi alla realizzazione della dinamite - dopo che comprese l'uso che
avrebbero fatto della sua miscela di nitroglicerina e argilla - lo ritraggono devastato
dall'ansia, con le dita che tormentano la barba. Sarà forse una mia suggestione, ma
quando guardo le foto di Nobel, le sopracciglia tirate in alto e gli occhi persi,
sembrano dire un'unica cosa: "Non volevo. Intendevo aprire le montagne, sbriciolare
massi, creare gallerie. Non volevo tutto quello che è accaduto". Kalashnikov ha invece
sempre un'aria serena, di vecchio pensionato russo, con tanti ricordi per la testa. Te lo
immagini con l'alito di vodka a raccontarti di qualche amico con cui ha vissuto il tempo
della guerra, o mentre a tavola ti bisbiglia che da giovane riusciva a resistere a letto
ore senza fermarsi mai. Sempre nel gioco infantile delle suggestioni, la faccia di
Michail Kalashnikov sembra dire "Va tutto bene, non sono problemi miei, ho solo
inventato un mitra. Come lo usano gli altri non mi riguarda". Una responsabilità
tracciata entro i confini della propria carne, circoscritta dal gesto. Quello che la
propria mano ha fatto è quello che compete alla propria coscienza. È questo uno degli
elementi che credo faccia diventare il vecchio generale l'icona involontaria dei clan
dell'intero globo. Michail Kalashnikov non è un trafficante d'armi, non conta nulla nelle
mediazioni d'acquisto dei mitra, non ha influenza politica, non possiede personalità
carismatica ma porta con sé l'imperativo quotidiano dell'uomo al tempo del mercato:
fa' quello che devi fare per vincere, il resto non ti riguarda.
Mariano aveva a tracolla uno zaino e indossava una felpa col cappuccio: tutto
firmato Kalashnikov. Il generale aveva diversificato gli investimenti e stava facendo di
se stesso un imprenditore di talento. Nessuno più di lui poteva godere di un nome
arcinoto. Così un imprenditore tedesco aveva messo su un'azienda di vestiti griffati
Kahlashnikov, e il generale aveva preso gusto a distribuire il suo cognome, investendo
anche in una ditta di estintori. Mentre Mariano raccontava bloccò il filmato
d'improvviso e si catapultò fuori dal bar. Aprì il cofano della sua auto e, cacciata una
valigetta militare, la posò sul bancone del bar. Credevo fosse completamente impazzito
nella sua mistica da mitra. Temevo avesse attraversato mezza Europa con un mitra nel
portabagagli e che lo volesse sfoderare davanti a tutti. Invece da quella valigia militare
uscì un piccolo kalashnikov di cristallo pieno di vodka. Era una bottiglia molto kitsch
con un tappo in punta di canna. E nell'agro aversano tutti i bar che dovevano rifornirsi
da Mariano, dopo il suo viaggio, avevano come proposta commerciale la vodka
Kalashnikov. Già immaginavo la riproduzione di cristallo campeggiare alle spalle di
tutti i baristi tra Teverola e Mondragone. Il filmino stava finendo, gli occhi - a forza di
strizzarli per attenuare i gradi di miopia - mi facevano male. Ma l'ultima immagine era
davvero imperdibile. Due vecchietti sull'uscio di casa che, le pantofole ai piedi,