Page 139 - Gomorra
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D'improvviso mi sentii chiamare. Avevo capito ancor prima di voltarmi di chi si
            trattava. Era mio padre. Da due anni non ci vedevamo, avevamo vissuto nella stessa
            città  senza  mai  incontrarci.  Incredibile  trovarsi  nel  labirinto  di  carne  romano.  Mio
            padre  era  imbarazzatissimo.  Non  sapeva  come  salutarmi  e  forse  neanche  se  poteva
            farlo come avrebbe voluto. Ma era euforico come in quelle gite dove sai che in poche
            ore ti capiteranno cose belle, le stesse che non potranno ripetersi per i successivi tre

            mesi almeno, e quindi vuoi berle tutte, sentirle sino in fondo, velocemente però, per
            paura di perdere le altre felicità nel poco tempo che ti rimane. Aveva approfittato del
            fatto che una compagnia rumena aveva abbassato i costi dei voli verso l'Italia, a causa
            della  morte  del  papa,  e  così  aveva  pagato  il  biglietto  a  tutta  la  famiglia  della  sua
            compagna.  Tutte  le  donne  del  gruppo  avevano  un  velo  sui  capelli  e  un  rosario

            arrotolato intorno al polso. Impossibile capire in quale strada ci trovavamo, ricordo
            solo un enorme lenzuolo che campeggiava tra due palazzi. "Undicesimo comandamento:
            Non  spingere  e  non  sarai  spinto."  Scritto  in  dodici  lingue.  Erano  contenti  i  nuovi
            parenti di mio padre. Contentissimi di partecipare a un evento così importante come la
            morte  del  papa.  Tutti  sognavano  sanatorie  per  gli  immigrati.  Soffrire  per  lo  stesso
            motivo,  partecipare  a  una  manifestazione  così  immensa  e  universale  era  per  questi
            rumeni il miglior modo di prendere cittadinanza sentimentale e oggettiva con l'Italia,

            prima  ancora  di  quella  legale.  Mio  padre  adorava  Giovanni  Paolo  II,  il  fascino  di
            quell'uomo che faceva baciare a tutti la sua mano lo esaltava. Come era riuscito senza
            palesi  ricatti  e  chiare  strategie  a  raggiungere  quel  potere  immenso  d'ascolto,  lo
            intrigava. Tutti i potenti si inginocchiavano dinanzi a lui.

                 Per  mio  padre  questo  bastava  per  ammirare  un  uomo.  Lo  vidi  inginocchiarsi

            assieme  alla  madre  della  sua  compagna  per  recitare  un  rosario  improvvisato  per
            strada. Dal mucchio di parenti rumeni, vidi spuntare un bambino. Capii subito che era
            il figlio di mio padre e di Micaela. Sapevo che era nato in Italia per poter avere la
            cittadinanza,  ma  che  per  esigenze  della  madre  aveva  sempre  vissuto  in  Romania.
            Cercava  di  tenersi  ancorato  alla  gonna  della  mamma.  Non  l'avevo  mai  visto,  ma
            conoscevo il suo nome. Stefano Nicolae. Stefano come il padre di mio padre, Nicolae
            come  il  padre  di  Micaela.  Mio  padre  lo  chiamava  Stefano,  sua  madre  e  i  suoi  zii

            rumeni Meo. In breve sarebbe stato chiamato Nico, ma mio padre non aveva ancora
            avuto il tempo d'essere sconfitto. Ovviamente il primo dono che aveva ricevuto dal
            padre appena sceso dalla scaletta dell'aereo, era un pallone. Mio padre vedeva per la
            seconda volta il figlioletto ma lo trattava come se fosse sempre stato dinanzi ai suoi
            occhi. Lo prese in braccio e mi si avvicinò.


                 "Nico adesso viene a vivere qui. In questa terra. Nella terra del padre."
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