Page 138 - Gomorra
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non  aver  sentito,  poiché  mi  viene  in  mente  Conversazione  in  Sicilia  di  Vittorini,  e
            rischio, se solo apro bocca, di cantilenare la voce di Silvestro Ferrato. E non è il caso.
            I  tempi  mutano,  le  voci  sono  le  stesse.  In  viaggio  però  mi  capitò  di  incontrare  una
            signora grassona ficcata in malo modo nel sediolino dell'Eurostar. Era salita a Bologna
            con  una  voglia  incredibile  di  parlare  per  ingolfare  anche  il  tempo,  oltre  che  il  suo
            corpo. Insisteva per sapere da dove venivo, cosa facevo, dove andavo. Avevo voglia
            di  rispondere  mostrandole  la  ferita  al  polpastrello,  e  basta.  Ma  lasciai  perdere.

            Risposi:  "Sono  di  Napoli".  Una  città  che  lascia  parlare  talmente  tanto,  che  basta
            pronunciarne il nome per emanciparsi da ogni tipo di risposta. Un luogo dove il male
            diviene tutto il male, e il bene tutto il bene. Mi addormentai.

                 La  mattina  dopo,  prestissimo  Mariano  mi  chiamò  ansioso.  Servivano  un  po'  di

            contabili e organizzatori per un'operazione molto delicata che alcuni imprenditori delle
            nostre zone stavano facendo a Roma. Giovanni Paolo II stava male, forse era persino
            morto,  ma  ancora  non  avevano  ufficializzato  la  notizia.  Mariano  mi  chiese  di
            accompagnarlo. Scesi alla prima fermata possibile e tornai indietro. Negozi, alberghi,
            ristoranti, supermercati, avevano bisogno in pochissimi giorni di enormi e straordinari
            rifornimenti di ogni tipo di prodotto. C'era da guadagnare un mare di danaro, milioni di
            persone in brevissimo tempo si sarebbero riversati nella capitale, vivendo per strada,

            trascorrendo ore lungo i marciapiedi, dovendo bere, mangiare, in una parola comprare.
            Si potevano triplicare i prezzi, vendere a ogni ora, anche di notte, spremere profitto da
            ogni minuto. Mariano fu chiamato in causa, mi propose di fargli compagnia e per questa
            gentilezza mi avrebbe passato un po' di soldi. Nulla è gratuito. A Mariano era stato
            promesso  un  mese  di  ferie  così  da  poter  realizzare  il  sogno  di  andare  in  Russia  a
            incontrare  Michail  Kalashnikov;  aveva  avuto  persino  garanzie  da  un  uomo  delle

            famiglie  russe  che  aveva  giurato  di  conoscerlo.  Mariano  avrebbe  potuto  così
            incontrarlo, fissarlo negli occhi, toccare le mani che avevano inventato il potente mitra.

                 Il  giorno  del  funerale  del  papa,  Roma  era  un  carnaio.  Impossibile  riconoscere  i
            volti delle strade, i percorsi dei marciapiedi. Un'unica pelle di carne aveva rivestito il
            catrame,  le  entrate  dei  palazzi,  le  finestre,  una  colata  che  si  incanalava  in  ogni
            possibilità di spazio. Una colata che sembrava aumentare il proprio volume, sino a far

            esplodere  i  canali  in  cui  confluiva.  Ovunque  essere  umani.  Ovunque.  Un  cane
            terrorizzato  si  era  nascosto  tremante  sotto  un  autobus,  aveva  visto  ogni  suo  spazio
            vitale violato da piedi e gambe. Io e Mariano ci fermammo su un gradino di un palazzo.
            L'unico a riparo da un gruppo che aveva deciso come voto di cantare per sei ore di
            seguito una canzoncina ispirata a san Francesco. Ci sedemmo a mangiare un panino.

            Ero  esausto.  Mariano  invece  non  si  stancava  mai,  ogni  energia  gli  veniva  pagata  e
            questo lo faceva sentire perennemente carico.
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